Homo fallibilis: come l’errore, il fallimento e la serendipità guidano l’evoluzione dell’universo, della vita e della conoscenza.

“Di tutto, sono rimaste tre cose: la certezza che stava sempre iniziando, la certezza che bisognava continuare e la certezza che sarebbe stato interrotto prima di finire. Fare dell’interruzione un nuovo cammino, fare della caduta un passo di danza, del timore una scala, del sogno un ponte, della ricerca un incontro.”

Fernando Pessoa

“Provate ancora. Fallite ancora. Fallite meglio.”

Samuel Beckett

Sbagliando s’impara.

“Sbagliando s’impara”, era solita ripetere la buonanima della mia maestra delle elementari, salvo poi non perdere occasione per umiliarci pubblicamente e punirci perentoriamente per ogni errore commesso, per ogni minima deviazione dalla sua personalissima idea di perfezione. Più eri bravo e avevi buoni voti, meno ti era concesso sbagliare. Le decine di cose corrette dette in precedenza in quell’istante cessavano di esistere e non significavano più nulla, bastava un banalissimo errore e ti ritrovavi alla lavagna, rosso di vergogna, mentre ti cazziava aspramente davanti a tutta la classe mostrando tutta la delusione di cui era capace.

“Proprio tu che sei così bravo, come hai potuto fare un errore del genere? Cosa penseranno i tuoi compagni? E i tuoi genitori saranno così delusi…avevamo tutti così tante aspettative su di te…e invece” ripeteva scuotendo la testa in segno di disapprovazione mentre con voce grave e sguardo severo instillava nei nostri giovani cuori impauriti un misto letale di senso di colpa e vergogna, tali da portarci di lì in avanti a mantenerci a distanza “igienica” da qualsiasi rischio di errore e a rimanere sempre nel terreno sicuro, in “su connottu” (lett, nel conosciuto), dove la sua delusione e il suo disappunto non ci avrebbero potuto raggiungere.

La verità è che tutti noi, chi più e chi meno, siamo cresciuti in un mondo ossessionato dalla perfezione, dalla risposta esatta, dal percorso netto, dal curriculum immacolato; un mondo dove fin da piccoli ci viene insegnato che l’errore è una macchia da cancellare, una deviazione da correggere, una colpa da espiare. Il fallimento è semplicemente inaccettabile, marchiato a fuoco sulle nostre fronti come lettera scarlatta: un segno indelebile che ci accompagnerà per sempre, senza via di scampo, senza possibilità di redenzione. 

In un simile contesto, la valorizzazione dell’imperfezione come forza creativa può sembrare non solo controintuitiva, ma addirittura sovversiva, pericolosa, un rischio inutile da evitare con tutte le proprie forze. In un clima del genere, quanti di noi sono davvero spinti ad abbracciare l’errore come maestro?

Eppure, se allarghiamo per un attimo lo sguardo alla storia dell’universo, della vita e dell’intelligenza, con buona pace di maestra Gianna – che Dio l’abbia in gloria – , scopriamo che l’errore non è solo inevitabile, ma spesso necessario e, talvolta, persino desiderabile. Come scriveva il biologo Jacques Monod, la vita stessa è figlia del caso e della necessità, un prodotto di “errori” genetici e adattamenti imperfetti che, nel corso di miliardi di anni, hanno dato origine alla straordinaria biodiversità che popola il nostro pianeta.

Ma cosa intendiamo esattamente per “errore” in questo contesto? E come si lega al concetto di serendipità, quella felice combinazione di caso e sagacia che ha portato a tante scoperte rivoluzionarie nella storia della scienza e della tecnologia?

In senso lato, possiamo definire l’errore come una deviazione da un percorso previsto o desiderato, un’anomalia nel risultato di qualche “azione” rispetto a un modello o a una norma stabilita. La serendipità, d’altra parte, è la capacità di fare scoperte felici e inattese per caso o per sagacia, mentre si sta cercando altro. Entrambi questi concetti condividono un elemento di imprevedibilità, di apertura all’inaspettato, che si contrappone a una visione deterministica e lineare del progresso e della conoscenza.

La visione tradizionale dell’errore, radicata nella nostra cultura e nei nostri sistemi educativi, è prevalentemente negativa. L’errore viene visto come un fallimento, una mancanza, un ostacolo da superare sulla via del successo. Questa prospettiva, tuttavia, tradisce una profonda incomprensione della natura stessa del processo creativo e innovativo.

Come ha sottolineato lo psicologo Keith Sawyer nel suo libro “Zig Zag: The Surprising Path to Greater Creativity”, la creatività non è un processo lineare che procede da un’idea brillante a un prodotto finito, ma un percorso tortuoso fatto di tentativi, errori, deviazioni impreviste e connessioni inaspettate. “La creatività”, scrive Sawyer, “è un processo di zig-zag, non una linea retta, che  implica: fare un passo avanti, poi uno indietro, poi di lato; generare molte idee e poi scartarne la maggior parte; fallire ripetutamente e imparare da quei fallimenti”.

Questa visione dell’errore come parte integrante e necessaria del processo creativo trova riscontro in molteplici campi, dalla scienza all’arte, dalla tecnologia all’imprenditoria. Come vedremo successivamente, alcune delle scoperte più rivoluzionarie e delle innovazioni più dirompenti della storia sono nate proprio da errori, incidenti o deviazioni impreviste.

Pensiamo alla penicillina, scoperta per caso da Alexander Fleming quando una muffa contaminò accidentalmente le sue colture di batteri. O al Post-it, nato dal “fallimento” di un adesivo che non era abbastanza forte. O ancora, al celebre fallimento dell’esperimento di Michelson-Morley sulla ricerca dell’etere, che invece di confermare le teorie dell’epoca, aprì la strada a una rivoluzione nella nostra comprensione dell’universo, compresa la Teoria della relatività di Einstein.

Ma l’importanza dell’errore va ben oltre questi esempi celebri di serendipità. Come ha argomentato il filosofo Karl Popper, l’errore è un elemento essenziale del metodo scientifico stesso. La scienza, secondo Popper, non procede per accumulo di verità definitive, ma attraverso un processo continuo di congetture e confutazioni, in cui le teorie sono costantemente messe alla prova e, se necessario, riviste o abbandonate alla luce di nuove evidenze.

“La scienza”, scriveva Popper, “non è un sistema di enunciati certi e ben stabiliti, né un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (episteme): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità”.

Questa concezione della scienza come processo aperto e fallibile, in cui l’errore gioca un ruolo costruttivo e necessario, si contrappone a una visione dogmatica e autoritaria del sapere, che vede la conoscenza come un corpus di verità assolute e immutabili. Ed è proprio questa visione dogmatica, paradossalmente, a costituire uno dei maggiori ostacoli al progresso scientifico e all’innovazione.

Parafrasando Thomas Kuhn, le grandi svolte nella storia della scienza spesso incontrano forti resistenze da parte dell’establishment accademico e delle “schiere intermedie” di mediamente istruiti (nel senso etimologico del termine) dalla scuola di stato, ancorati a paradigmi consolidati e refrattari a mettere in discussione le proprie convinzioni. Questi “istruiti” nella media, etimologicamente “costruiti” o “edificati” (dal latino in-struere), appiattiti e plasmati secondo gli schemi di pensiero dominanti, sono spesso privi di qualsiasi spirito critico e, paradossalmente, diventano puntualmente i custodi più zelanti dell’ortodossia e dell’invariabilità dello scientificamente acquisito e dello status quo quando si trovano davanti qualcuno che osa anche solo metterlo in dubbio.

Questo atteggiamento dogmatico, che trova le sue radici in una visione distorta e idealizzata della scienza come fonte di certezze incontrovertibili, tradisce in realtà una profonda incomprensione della natura stessa dell’impresa scientifica. D’altronde, come disse il fisico Richard Feynman nel discorso tenuto ai laureandi del Caltech nel 1974: “Science is the belief in the ignorance of experts.”, mettendo in guardia i giovani studenti rispetto quella che lui ribattezzava come “scienza del culto del cargo”, ovvero la tendenza a imitare gli aspetti esteriori della ricerca scientifica senza comprenderne i principi fondamentali.

Pertanto, abbracciare l’errore come forza creativa, non significa abbandonarsi al caos o rinunciare al rigore metodologico. Al contrario, implica coltivare un atteggiamento di umiltà epistemologica, di apertura mentale e di curiosità intellettuale. Significa essere disposti a mettere in discussione le proprie certezze, a esplorare strade non battute, a vedere opportunità dove altri vedono solo ostacoli.

Come scriveva il poeta Antonio Machado: “Viandante, sono le tue orme / il sentiero, e nulla più; / viandante, non c’è sentiero, / il sentiero si fa camminando”. Allo stesso modo, il cammino della conoscenza e dell’innovazione non è un percorso predefinito, ma si costruisce passo dopo passo, errore dopo errore, scoperta dopo scoperta.

Nel prosieguo di questo (spero non me ne vorrete) lungo articolo, cercheremo di esplorare il ruolo dell’errore e della serendipità in diversi ambiti, dalla cosmologia alla biologia, dalla scienza alla tecnologia, dalla cultura materiale alla fisica quantistica. Vedremo come l’imperfezione, che lungi dall’essere un ostacolo, sia spesso, invece, il motore stesso del progresso e della creatività. Rifletteremo inoltre su come possiamo coltivare, a livello individuale e collettivo, una cultura più aperta all’errore e all’imprevisto. Una cultura capace di trasformare gli “sbagli” e i “fallimenti” in opportunità di apprendimento e di innovazione, anziché in una condanna ad ardere in eterno nelle fiamme dell’Averno.

L’errore cosmico: dal Big Bang all’evoluzione dell’universo

E se vi dicessi che l’universo stesso, nella sua maestosa vastità e complessità, potrebbe essere considerato il prodotto di un “errore” primordiale, una deviazione infinitesimale dalla perfetta simmetria del vuoto quantistico. Questa prospettiva, lungi dall’essere una mera speculazione filosofica, ma trova fondamento in alcune delle teorie cosmologiche più avanzate del nostro tempo.

Secondo il cosiddetto modello standard, l’universo ha avuto origine circa 13,8 miliardi di anni fa con il Big Bang, un evento singolare di densità e temperatura infinite da cui è scaturito tutto ciò che esiste. Ma cosa ha innescato questa esplosione primordiale? E come si è passati dall’uniformità quasi perfetta dei primi istanti alla ricca varietà di strutture cosmiche che osserviamo oggi?

La risposta, secondo molti cosmdologi, risiede nelle fluttuazioni quantistiche, minuscole increspature nell’oceano dell’energia del vuoto che, amplificate dall’espansione cosmica, hanno dato origine alle prime disomogeneità nella distribuzione della materia. 

Come scrive il fisico Lawrence Krauss nel suo libro “Un universo dal nulla”: “L’universo è la più grande manifestazione del qualcosa dal nulla che possiamo immaginare. E la scienza sta cominciando a dimostrare come ciò possa essere accaduto naturalmente, senza alcuna azione divina o soprannaturale. […] Le fluttuazioni quantistiche consentono letteralmente a qualcosa di emergere dal nulla.”

Queste fluttuazioni quantistiche, che possiamo immaginare come minuscoli “errori” nella simmetria del vuoto, sono alla base non solo dell’origine dell’universo, ma anche della formazione di tutte le strutture cosmiche che osserviamo, dalle galassie agli ammassi di galassie. 

Come ha sottolineato anche il celebre astrofisico Stephen Hawking: “Le leggi della fisica quantistica ci dicono che nulla è assolutamente certo. Anche nel vuoto più perfetto, le particelle e l’antiparticelle appaiono e scompaiono continuamente. […] Queste fluttuazioni quantistiche hanno lasciato piccole increspature nel tessuto uniforme dell’universo primordiale. Queste increspature si sono poi amplificate per effetto della gravità, portando alla formazione delle galassie e delle stelle.”

Ma le fluttuazioni quantistiche non sono l’unico “errore” fondamentale nella storia dell’universo. Un altro enigma che ha affascinato i cosmologi per decenni è l’asimmetria tra materia e antimateria. Secondo le nostre teorie più avanzate, l’universo primordiale dovrebbe aver prodotto quantità uguali di materia e antimateria, che avrebbero dovuto annichilirsi a vicenda, lasciando solo radiazione. Invece, per qualche ragione, la materia ha prevalso, permettendo la formazione delle strutture cosmiche che osserviamo.

Questa asimmetria, che potremmo considerare un altro “errore” cosmico, è stata oggetto di intense ricerche e speculazioni. Una delle teorie più promettenti, proposta dal fisico Andrei Sakharov, suggerisce che l’asimmetria sia il risultato di una violazione della simmetria CP (carica-parità) nelle prime fasi dell’universo, combinata con processi fuori dall’equilibrio termico.

Come ha scritto il fisico Sean Carroll: “L’asimmetria materia-antimateria è uno dei più grandi misteri della cosmologia moderna. È come se l’universo avesse fatto un errore nei suoi calcoli primordiali, producendo un leggero eccesso di materia rispetto all’antimateria. Ma è proprio grazie a questo ‘errore’ che esistiamo.”

Un altro aspetto dell’universo che potrebbe essere visto come il risultato di un “errore” o di una casualità è la particolare combinazione di costanti fisiche fondamentali che caratterizza il nostro cosmo. Valori come la costante gravitazionale o la massa dell’elettrone sembrano essere finemente calibrati per permettere l’esistenza di strutture complesse come le stelle, i pianeti e, in ultima analisi, la vita.

Questa apparente “fine tuning” dell’universo ha portato alcuni a invocare un principio antropico o addirittura un disegno intelligente. Tuttavia, una prospettiva alternativa, sostenuta da fisici come Leonard Susskind e Andrei Linde, è quella del multiverso: l’idea che il nostro universo sia solo uno tra un numero potenzialmente infinito di universi, ciascuno con le proprie leggi e costanti fisiche.

In questa visione, la particolare combinazione di parametri che osserviamo nel nostro universo non sarebbe il risultato di un disegno o di una necessità, ma semplicemente una delle tante possibilità realizzate nel vasto ensemble del multiverso. 

Come ha scritto lo stesso Susskind nel suo libro “Il paesaggio cosmico”:“L’idea del multiverso ci libera dalla necessità di spiegare perché le leggi della fisica sono esattamente come sono. In un multiverso sufficientemente grande e vario, praticamente tutto ciò che può accadere, accadrà.”

Questa prospettiva ci invita a vedere l’universo stesso come il prodotto di una sorta di “selezione naturale cosmica”, in cui la varietà e l’imperfezione giocano un ruolo cruciale. Proprio come in biologia l’evoluzione procede attraverso mutazioni casuali e selezione naturale, così nel multiverso la “varietà cosmica” emergerebbe da fluttuazioni quantistiche e processi inflazionari, con gli universi più “adatti” (cioè quelli in grado di sviluppare strutture complesse) che diventano dominanti.

In questo senso, l’errore e la casualità non sarebbero solo caratteristiche marginali o accidentali dell’universo, ma elementi fondamentali della sua struttura e della sua evoluzione. Come ha osservato il fisico Freeman Dyson: “L’universo in un certo senso deve aver saputo che stavamo arrivando”. Questa frase, apparentemente paradossale, sottolinea come le stesse “imperfezioni” e asimmetrie che caratterizzano il nostro universo siano in realtà le condizioni necessarie per l’emergere della complessità e, in ultima analisi, della vita e dell’intelligenza.

Evoluzione e bricolage: l’officina degli errori

Se dal cosmo scendiamo di ordine di grandezza alla scala della vita sulla Terra, scopriamo che il ruolo dell’errore e della casualità è, se possibile, ancora più evidente e cruciale. L’evoluzione biologica, il processo che ha dato origine all’incredibile diversità di forme viventi che popolano il nostro pianeta, può essere vista come un immenso esperimento di “bricolage” molecolare, in cui gli errori e le imperfezioni sono il motore stesso del cambiamento e dell’adattamento.

Come ha magistralmente argomentato il biologo François Jacob nel suo saggio “Evolution and Tinkering“, l’evoluzione non procede come un ingegnere che progetta soluzioni ottimali da zero, ma piuttosto come un “bricoleur” che lavora con i materiali a disposizione, adattando e ricombinando strutture preesistenti in modi nuovi e spesso imprevisti. In questo processo, gli errori – sotto forma di mutazioni genetiche casuali – giocano un ruolo fondamentale.

Le mutazioni, che possiamo definire come “errori” nella replicazione o nella riparazione del DNA, sono la fonte primaria di variabilità genetica su cui agisce la selezione naturale. La maggior parte di queste mutazioni sono neutre o leggermente dannose, ma occasionalmente alcune si rivelano vantaggiose, conferendo ai loro portatori un vantaggio riproduttivo che le fa diffondere nella popolazione.

Come ha scritto Richard Dawkins nel suo celebre “Il gene egoista”: “La mutazione è l’errore ultimo, l’errore al cuore del processo stesso che genera la vita e, quindi, l’unico tipo di errore che può diventare meglio di un errore essendo riprodotto. La mutazione è importante perché è la fonte ultima di variazione genetica, e quindi di evoluzione.”

Ma il ruolo dell’errore nell’evoluzione va ben oltre le semplici mutazioni puntiformi. Fenomeni come le duplicazioni geniche, le traslocazioni cromosomiche o l’inserzione di elementi trasponibili – tutti potenzialmente visti come “errori” dal punto di vista della fedeltà di replicazione del genoma – si sono rivelati cruciali per l’innovazione evolutiva.

Un esempio particolarmente illuminante è quello dell’exaptation (cooptazione funzionale), un concetto introdotto dai paleontologi Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba per descrivere situazioni in cui strutture evolutesi per una funzione vengono “cooptate” per svolgerne una completamente diversa. Le piume degli uccelli, ad esempio, si sono inizialmente evolute per la termoregolazione, e solo successivamente sono state adattate per il volo; o ancora, Le ghiandole mammarie dei mammiferi, si crede si siano evolute da ghiandole sudoripare modificate, originariamente utilizzate per l’umidificazione delle uova; o anche il cervello umano, in cui molte delle aree cerebrali originariamente sviluppate per funzioni di base si sono adattate per compiti cognitivi superiori, come l’area di Broca, coinvolta nel linguaggio.

Questi casi di exaptation mostrano come l’evoluzione proceda spesso per vie tortuose e imprevedibili, trasformando “errori” o strutture apparentemente inutili in innovazioni adattative. Come ha scritto Gould: “L’evoluzione è come un bricoleur che non sa esattamente cosa produrrà, ma recupera tutto quello che trova intorno a sé, i pezzi più disparati, per realizzare qualcosa di funzionale.”

Un altro aspetto in cui l’imperfezione gioca un ruolo cruciale nell’evoluzione è quello che potremmo chiamare il “principio del buon abbastanza”. Contrariamente a una visione ingenua dell’evoluzione come progresso verso la perfezione, la selezione naturale favorisce soluzioni che sono sufficientemente buone per garantire la sopravvivenza e la riproduzione, non necessariamente le migliori in assoluto.

Questa “ottimalità vincolata” si riflette in innumerevoli esempi di strutture biologiche che, pur essendo funzionali, sono ben lontane dall’essere perfette. L’occhio dei vertebrati, spesso citato come esempio di “design intelligente”, presenta in realtà numerose imperfezioni, come il punto cieco causato dal passaggio del nervo ottico attraverso la retina. Queste imperfezioni, lungi dall’essere difetti di progettazione, sono testimonianze della storia evolutiva e dei vincoli strutturali e di sviluppo con cui l’evoluzione deve fare i conti.

Come ha osservato il biologo Jerry Coyne: “L’imperfezione è la firma dell’evoluzione. Un designer intelligente avrebbe fatto le cose molto diversamente, ma l’evoluzione può agire solo modificando ciò che già esiste.”

Infine, è importante sottolineare come l’errore e la casualità non siano solo fonte di variabilità genetica, ma giochino un ruolo cruciale anche nei processi di sviluppo e di espressione genica. La “rumorosità” intrinseca dei sistemi biologici, lungi dall’essere un difetto, si rivela spesso una risorsa preziosa per la plasticità e l’adattabilità degli organismi.

Studi recenti nel campo della biologia dei sistemi hanno mostrato come la variabilità stocastica nell’espressione genica possa conferire vantaggi adattativi alle popolazioni cellulari, permettendo loro di rispondere in modo più flessibile a cambiamenti ambientali. 

Come ha scritto il biologo Michael Elowitz: “Il rumore nell’espressione genica, lungi dall’essere un fastidioso sottoprodotto di processi cellulari imperfetti, è emerso come una caratteristica funzionalmente importante dei sistemi genetici, che può essere sfruttata in modi diversi per generare diversità fenotipica.”

L’evoluzione biologica lungi dall’essere un processo di ottimizzazione lineare, l’evoluzione procede per tentativi ed errori, sfruttando la casualità e l’imperfezione come fonti di innovazione e adattamento. Questa prospettiva non solo ha profonde implicazioni per la nostra comprensione della vita e della sua storia, ma offre anche spunti preziosi per campi apparentemente distanti come l’ingegneria, il design o l’intelligenza artificiale, suggerendo approcci più flessibili e “evolutivi” all’innovazione e alla risoluzione dei problemi.

Serendipità nella storia della scienza

La storia della scienza è costellata di esempi di scoperte rivoluzionarie nate da errori, incidenti o deviazioni impreviste dal percorso di ricerca originale. Questi casi di serendipità, lungi dall’essere mere curiosità aneddotiche, illuminano aspetti fondamentali del processo di scoperta scientifica e dell’innovazione tecnologica.

Uno degli esempi più celebri di serendipità scientifica è la scoperta della penicillina da parte di Alexander Fleming nel 1928. Fleming, di ritorno dalle vacanze, notò che una muffa aveva contaminato alcune delle sue colture di stafilococchi, creando un alone di inibizione intorno ad essa. Questa osservazione casuale, frutto di quello che potremmo chiamare un “errore” di laboratorio, portò alla scoperta del primo antibiotico e rivoluzionò la medicina del XX secolo.

Come ebbe modo di commentare lo stesso Fleming, quando si svegliò poco dopo l’alba del 28 settembre 1928, non aveva certo in programma di rivoluzionare la medicina scoprendo il primo antibiotico del mondo, o di avviare la moderna era degli antibiotici. Ma questo è esattamente quello che accadde a partire dalla quella scoperta

Un altro esempio classico è la scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Röntgen nel 1895. Röntgen stava conducendo esperimenti con tubi catodici quando notò che una lastra fotografica nelle vicinanze si era impressionata, nonostante fosse protetta dalla luce. Questa osservazione inaspettata lo portò a indagare su un nuovo tipo di radiazione, che chiamò “raggi X” per la loro natura sconosciuta.

L’elenco potrebbe continuare molto a lungo – dalla scoperta del politetrafluoroetilene (Teflon) da parte di Roy Plunkett alla serendipitosa invenzione del forno a microonde da parte di Percy Spencer – questi episodi, non certo isolati, illustrano come spesso le scoperte più rivoluzionarie nascano non da un processo lineare e pianificato, ma dall’abilità dei ricercatori di riconoscere e sfruttare anomalie e risultati inaspettati. Plunkett, ad esempio, stava cercando di creare un nuovo refrigerante quando scoprì accidentalmente il Teflon, mentre Spencer notò che una barretta di cioccolato si era sciolta nella sua tasca mentre lavorava con un magnetron radar.

Come detto in apertura, potremmo definire la serendipità come l’arte di fare scoperte inattese e, come abbiamo visto, questo richiede un’abilità particolare che potremmo definire ‘immaginazione scientifica’, cioè l’abilità del ricercatore di riconoscere il potenziale in un evento inaspettato e di immaginare le sue possibili applicazioni, la sua capacità di trasformare un errore, come un “incidente” di laboratorio, in una scoperta rivoluzionaria.

Ma la serendipità non si limita a singoli episodi di scoperta accidentale. Gioca un ruolo cruciale nel processo scientifico stesso, come fonte di ipotesi inedite e di nuove direzioni di ricerca.  

Nel suo libro “Conjectures and Refutations” (1963), Popper afferma: “Il criterio dello status scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, o confutabilità, o verificabilità.” Secondo Popper, infatti, il vero motore della scienza non sono le semplici osservazioni, ma i problemi che emergono quando la realtà sfida le nostre teorie.

Questi problemi si manifestano in due modi principali:

  • Quando i fatti osservati contraddicono le nostre aspettative, creando una discrepanza tra ciò che la teoria prevede e ciò che effettivamente accade.
  • Quando scopriamo incongruenze logiche all’interno delle nostre teorie, o quando queste entrano in conflitto con altre teorie accettate.

In entrambi i casi, sono queste “sorprese” o “anomalie” a spingere il progresso scientifico, stimolando i ricercatori a rivedere, affinare o addirittura rivoluzionare le loro ipotesi.

In questa prospettiva, gli “errori” – intesi come risultati inaspettati o anomalie rispetto alle previsioni teoriche – non sono ostacoli al progresso scientifico, ma opportunità preziose per mettere alla prova e raffinare le nostre teorie. 

Non a caso, la storia della fisica del XX secolo offre numerosi esempi di come anomalie apparentemente minori abbiano portato a rivoluzioni concettuali profonde.

L’effetto fotoelettrico, ad esempio, che sembrava contraddire la teoria ondulatoria della luce, portò Einstein a proporre la sua rivoluzionaria ipotesi dei quanti di luce. Analogamente, le sottili discrepanze nel perielio di Mercurio, un’anomalia rispetto alle previsioni della meccanica newtoniana, furono una delle chiavi che portarono Einstein alla teoria della relatività generale.

Tornando a  Thomas Kuhn: “La scoperta inizia con la consapevolezza di un’anomalia, cioè con il riconoscimento che la natura ha in qualche modo violato le aspettative indotte dal paradigma che governa la scienza normale.”

Cogliere il potenziale che ci cela dietro certi “errori” anomalie, ma anche il solo riscontrarle sfuggendo alla tentazione di rifiutarle a priori, richiede menti preparate e ricettive, capaci di riconoscere il significato di osservazioni inattese e di seguirne le implicazioni. Come disse Louis Pasteur: “Nel campo dell’osservazione, il caso favorisce solo le menti preparate.”

Ma questo non basta. Serve anche la sagacia, come abbiamo detto, il coraggio di credere nelle proprie intuizioni e la forza di non aver paura dell’altrui giudizio, né di mettere in dubbio le conoscenze fino ad allora acquisite. Infatti, la capacità di sfruttare la serendipità, spesso si scontra con resistenze istituzionali e culturali all’interno della comunità scientifica. 

La storia della scienza offre numerosi esempi di idee rivoluzionarie inizialmente derise o ignorate dall’establishment. Pensiamo alla teoria della deriva dei continenti di Alfred Wegener, ridicolizzata per decenni prima di essere accettata con l’avvento della tettonica a placche. O alla teoria dell’origine batterica delle ulcere gastriche proposta da Barry Marshall e Robin Warren, che dovettero lottare contro lo scetticismo della comunità medica prima di vedere riconosciuta la loro scoperta con il Premio Nobel.

Questi casi illustrano come il progresso scientifico richieda non solo acume e creatività individuali, ma anche un ambiente istituzionale e culturale che valorizzi il pensiero divergente e sia aperto all’inaspettato. 

Come ha scritto il filosofo Paul Feyerabend nel suo provocatorio “Contro il metodo”: “La scienza è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchia teorica è più umanitaria ed è più probabile che promuova il progresso di quanto non lo siano le sue alternative fondate sulla legge e l’ordine.”

Fail fast, fail often!

Anche nel settore in cui lavoro oramai da quasi 15 anni, il dinamico ecosistema dell’innovazione e delle startup, l’errore e il fallimento hanno subito una profonda metamorfosi concettuale (almeno nel resto del mondo). Non più eventi catastrofici da evitare a tutti i costi, ma tappe fondamentali e inevitabili nel percorso verso il successo. Il mantra “fail fast, fail often” (fallisci velocemente, fallisci spesso) si è cristallizzato come principio guida per una nuova generazione di imprenditori e innovatori, segnando un cambio di paradigma radicale nella percezione del fallimento.

Eric Ries, autore del seminale “The Lean Startup”, ha catturato forse meglio di chiunque altro l’essenza di questa filosofia affermando che il successo non è la consegna di una particolare caratteristica, ma piuttosto l’apprendimento su come risolvere il problema del cliente. Questa prospettiva ribalta la concezione tradizionale del successo imprenditoriale, spostando il focus dal prodotto finale al processo di apprendimento e adattamento verso la soddisfazione dei bisogni del proprio target, presupponendo che nel corso di questo processo sia il target che il processo possano cambiare spesso, anche in maniera radicale.

La storia dell’innovazione tecnologica è costellata di esempi emblematici che testimoniano la potenza trasformativa del fallimento. Twitter, oggi piattaforma globale di comunicazione, è sorto dalle ceneri di Odeo, una startup di podcasting in difficoltà. Instagram è emersa dopo che i suoi fondatori hanno abbandonato Burbn, la loro app originale che non riusciva a guadagnare trazione. Questi casi illustrano come la capacità di pivotare – riorientare radicalmente il proprio modello di business in risposta ai feedback del mercato – sia spesso la chiave del successo.

Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, ha sintetizzato efficacemente questa mentalità affermando: “Se non ti vergogni della prima versione del tuo prodotto, l’hai lanciato troppo tardi.” Questa frase incarna un approccio all’innovazione basato sulla sperimentazione rapida e sull’iterazione continua, incoraggiando il lancio di “minimum viable products” (MVPs) per testare le ipotesi fondamentali del business con il minor dispendio possibile di tempo e risorse.

Un’ulteriore evoluzione di questo approccio è rappresentata dal concetto di “adessismo” (nowism), introdotto da Jōi Itō. L’adessismo si basa sull’idea che nell’era di Internet, il costo per realizzare qualcosa di nuovo è quasi nullo e la produzione non richiede più prototipi tradizionali. Itō sostiene che l’innovazione può e deve avvenire nel momento presente, senza la necessità di grandi investimenti o complessi piani aziendali.

Gli “adessisti” sono innovatori che operano in un contesto di cambiamento rapido e continuo, dove l’errore è visto non solo come accettabile, ma come parte integrante e necessaria del processo di innovazione. Questo approccio incoraggia la sperimentazione continua e l’adattamento in tempo reale, permettendo alle idee di evolversi rapidamente e di essere implementate senza ritardi.

L’adessismo si distingue da altre forme di innovazione per il suo focus sull’azione immediata e sulla sperimentazione nel presente. Mentre l’innovazione incrementale si concentra su piccoli miglioramenti continui e l’innovazione radicale o disruptive mira a cambiamenti fondamentali del mercato, l’adessismo enfatizza la capacità di rispondere rapidamente alle opportunità, valorizzando l’apprendimento attraverso l’errore e l’adattamento continuo.

Questo approccio al fallimento e all’errore ha implicazioni profonde che si estendono ben oltre il mondo delle startup. Grandi corporazioni come Google, Amazon e 3M (solo per citarne alcune) hanno adottato politiche che incoraggiano l’innovazione e la sperimentazione, riconoscendo che la capacità di fallire in modo costruttivo è essenziale per mantenere un vantaggio competitivo in un mondo in rapida evoluzione.

Ovviamente, abbracciare il fallimento non significa celebrare l’incompetenza o l’imprudenza. Si tratta piuttosto di creare un ambiente  favorevole e psicologicamente “sicuro”, in cui sia possibile sbagliare e imparare dai propri errori e migliorare rapidamente; ma, soprattutto, come ha sottolineato Amy C. Edmondson nel suo “The Fearless Organization”: “ la sicurezza psicologica” – che, all’interno delle organizzazioni, pone le persone in condizione di sbagliare e imparare rapidamente dai propri errori – “non è un permesso di rilassarsi e abbassare gli standard. Al contrario,  un invito a essere audaci, a prendere rischi e a esprimere se stessi.” Un vero e proprio atto di responsabilizzazione.

In un’epoca di cambiamenti tecnologici e sociali senza precedenti, la capacità di apprendere rapidamente dagli errori, di adattarsi a nuove realtà e di innovare costantemente non è più un lusso, ma una necessità esistenziale per tutti gli individui e le organizzazioni. Questo approccio richiede tuttavia un cambiamento culturale che valorizzi l’apprendimento, la trasparenza e la resilienza, invece della perfezione e dell’infallibilità.

D’altronde, come ha osservato Nassim Nicholas Taleb: “Il segreto della vita, ieri come oggi,  è imparare a prosperare nel disordine.”

Gli errori felici e la generatività del caso

La storia della tecnologia e della cultura materiale è ricca di esempi di “errori felici” che hanno portato a innovazioni rivoluzionarie. Questi casi illustrano come spesso le invenzioni più influenti nascano non da un processo di progettazione lineare e controllato, ma da incidenti, errori o usi imprevisti di tecnologie esistenti.

Un esempio classico è la scoperta della vulcanizzazione della gomma da parte di Charles Goodyear nel 1839. Dopo anni di esperimenti fallimentari, Goodyear fece cadere accidentalmente un pezzo di gomma mescolata con zolfo su una stufa calda. Invece di fondersi, la gomma si indurì, mantenendo la sua elasticità. Questo “errore” portò alla creazione della gomma vulcanizzata, un materiale che ha rivoluzionato numerosi settori industriali.

Nel campo dell’alimentazione, molte tecniche di conservazione e preparazione degli alimenti sono nate probabilmente da errori o incidenti. La fermentazione, ad esempio, potrebbe essere stata scoperta quando la frutta, dimenticata e lasciata a sé stessa, ha subito una trasformazione naturale dei suoi zuccheri in alcol ed altri composti, creando nuovi sapori, aromi e proprietà inaspettate. Questo processo, causato da lieviti presenti naturalmente nell’ambiente, avrebbe portato alla produzione di bevande fermentate primitive e quindi avrebbe “suggerito” come repliwcare il processo. “Errori” di questo tipo hanno portato alla creazione di alimenti come il formaggio, il vino, la birra e il pane lievitato, che hanno avuto un impatto profondo sulla cultura alimentare umana. 

Anche nel campo del design e dell’arte, gli errori e le imperfezioni hanno spesso giocato un ruolo creativo. Il movimento wabi-sabi nell’estetica giapponese, ad esempio, celebra la bellezza dell’imperfezione e della transitorietà. Questa filosofia ha influenzato profondamente il design contemporaneo, promuovendo un’estetica che valorizza l’autenticità e l’unicità invece della perfezione standardizzata.

Come ha scritto Leonard Koren nel suo libro “Wabi-Sabi for Artists, Designers, Poets & Philosophers”: “Il wabi-sabi suggerisce che la bellezza può essere coesistente con l’imperfezione, anzi può essere aumentata da essa.

Questi esempi ci mostrano come l’errore e l’imperfezione, lungi dall’essere ostacoli al progresso tecnologico e culturale, siano spesso i catalizzatori di innovazioni profonde e durature. Ci invitano a riconsiderare il nostro rapporto con l’errore e l’imprevisto, non come nemici da eliminare, ma come potenziali alleati nel processo creativo e innovativo.

L’indeterminazione come regola

La fisica quantistica, con i suoi paradossi e le sue stranezze, offre forse la più profonda sfida alla nostra concezione tradizionale di errore e precisione. Al cuore della teoria quantistica troviamo il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce un limite fondamentale alla precisione con cui possiamo conoscere simultaneamente certe coppie di proprietà fisiche di una particella, come posizione e momento.

Come ha scritto lo stesso Werner Heisenberg: “Le più piccole unità di materia non sono in realtà oggetti fisici nel senso ordinario della parola; sono forme, strutture o idee nel senso di Platone, delle quali si può parlare inequivocabilmente solo con il linguaggio matematico.”

Questo principio non è semplicemente un limite tecnico alla nostra capacità di misurazione, ma riflette una proprietà fondamentale della realtà a livello quantistico. L’indeterminazione quantistica ci costringe a ripensare radicalmente i concetti di causalità, determinismo e oggettività che erano alla base della fisica classica.

Inoltre, fenomeni quantistici come la sovrapposizione e l’entanglement sfidano ulteriormente le nostre intuizioni classiche sull’errore e la precisione. In un certo senso, un sistema quantistico in sovrapposizione è simultaneamente in tutti i suoi stati possibili – una situazione che dal punto di vista classico potremmo considerare un “errore” o un’indeterminazione, ma che a livello quantistico è la norma.

Queste stranezze quantistiche, lungi dall’essere mere curiosità teoriche, hanno profonde implicazioni pratiche e filosofiche. Da un lato, hanno portato allo sviluppo di tecnologie rivoluzionarie come i laser, i transistor e, più recentemente, i computer quantistici. Dall’altro, ci invitano a riconsiderare profondamente i nostri concetti di realtà, causalità e conoscenza.

In un certo senso, la fisica quantistica ci mostra un universo in cui l’errore e l’indeterminazione non sono imperfezioni da eliminare, ma caratteristiche fondamentali e produttive della realtà. Ci sfida a sviluppare nuovi modi di pensare e di conoscere che possano abbracciare l’incertezza e la complessità invece di rifuggirle e ripudiarle.

Il potere reazionario della norma

Nonostante l’evidenza del ruolo costruttivo dell’errore e dell’indeterminazione in ambiti che vanno dalla cosmologia alla biologia, dalla tecnologia alla fisica quantistica, la nostra cultura rimane profondamente ancorata a un ideale di perfezione e di controllo che spesso ostacola l’innovazione e il progresso.

Questo “potere reazionario della norma” si manifesta in svariati modi, tempi e luoghi. Dalla famiglia alla scuola, dalle istituzioni fino ai gruppi sociali cui apparteniamo. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel mondo accademico e scientifico, dove non tanto gli scienziati e i ricercatori eccellenti, ma quanto più quelle “schiere intermedie” di mediamente istruiti (di cui già abbiamo parlato) sembrano ergersi a ultimi baluardi delle verità ultime della scienza come dogmi immutabili davanti ai quali non si può dubitare se non si vuole essere tacciati di eresia e ostracizzati dalla comunità scientifica con la S maiuscola; schiere di chierici fondamentalisti, al soldo di nessuno se non della loro mediocre comprensione delle dinamiche scientifiche, fanno da guardiani ad una ortodossia che, in virtù delle cosiddette “certezze acquisite”, si pone  in posizione diametralmente opposta al dubbio, alla ricerca, al cambiamento propri del progresso scientifico.

Nella maggior parte dei casi, non c’è malizia in questo atteggiamento. La maggior parte di loro sono inconsapevoli, convinti di agire correttamente e totalmente in buona fede. Ma perchè questo è accaduto e continua ad accadere?

Thomas Kuhn, nel suo celebre “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, offre una spiegazione illuminante a questo fenomeno. Nel suo rivoluzionario testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” Kuhn introduce il concetto di “scienza normale”. Questa pratica, svolta all’interno di paradigmi consolidati e ampiamente accettati, assorbe la stragrande maggioranza del tempo e delle energie degli scienziati. Il filosofo sottolinea come questa attività si fondi su una premessa tanto potente quanto insidiosa: la convinzione, o meglio la presunzione, che la comunità scientifica possegga una comprensione definitiva della realtà. Questa fiducia incrollabile nelle “verità” acquisite crea un terreno fertile per il dogmatismo, spesso mascherato da rigore scientifico.

Non solo: è su questo modello che viene plasmata la formazione di intere generazioni di studenti, inclusi coloro (la maggior parte) che non intraprenderanno mai una carriera nella ricerca, ma che inevitabilmente rimarranno legati a quel imprinting.

Indubbiamente, questa tendenza conservatrice svolge un ruolo cruciale nel garantire la coerenza e il rigore metodologico della ricerca scientifica. Tuttavia, la stessa forza che assicura stabilità può trasformarsi in un freno, un ostacolo formidabile quando si tratta di accogliere idee innovative o risultati inaspettati. Non di rado purtroppo ci capita di assistere all’emergere di dinamiche che ricordano più una caccia alle streghe che un dibattito scientifico: ostracismo, derisione e marginalizzazione diventano armi per soffocare il pensiero divergente.

Queste pratiche, oltre a essere eticamente e deontologicamente discutibili, hanno un effetto profondamente deleterio sul progresso scientifico e sulla formazione dei giovani ricercatori. Scoraggiano alla radice quei comportamenti audaci, quelle intuizioni non ortodosse che, nella storia della scienza, si sono spesso rivelate il motore di rivoluzioni concettuali e scoperte epocali. In questo modo, paradossalmente, un sistema nato per promuovere la conoscenza corre il rischio di diventare il suo più grande ostacolo.

In questo modo, la paura dell’errore getta un’ombra lunga sul mondo della ricerca. Sotto il peso opprimente della pressione sociale e accademica, molti ricercatori si trovano intrappolati in una cultura di avversione al rischio che soffoca inesorabilmente la creatività e l’innovazione propria e di chi gli sta attorno. 

Al contrario, invece, come ci ricorda Taleb nel suo libro “Antifragile” ci sono cose al mondo, tra cui l’innovazione, che “beneficiano degli shock”, che “prosperano e crescono quando sono esposte alla volatilità, al caso, al disordine e agli stressori e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza.”

Per superare questo “potere reazionario della norma” e coltivare una cultura più aperta all’errore e all’innovazione, è necessario un cambiamento profondo nei nostri sistemi educativi, nelle nostre istituzioni di ricerca e nella nostra mentalità collettiva. Dobbiamo imparare a valorizzare non solo i risultati, ma anche il processo di esplorazione e scoperta, con tutti i suoi possibili errori e deviazioni.

Il progresso della civiltà si basa sul mantenimento di un delicato equilibrio tra la conoscenza e il rispetto per il passato e l’apertura incondizionata al futuro. In questo equilibrio, l’errore e l’imperfezione giocano un ruolo cruciale, sfidandoci a mettere in discussione le nostre certezze e a esplorare nuove possibilità. È fondamentale comprendere che nemmeno il passato e la costruzione dell’attuale paradigma scientifico sono stati un percorso lineare, ma piuttosto un costante processo di tentativi ed errori.

Solo abbracciando questa prospettiva potremo liberare pienamente il potenziale creativo e innovativo della nostra specie, riconoscendo che il progresso scientifico è un cammino tortuoso fatto di dubbi, errori e inaspettate scoperte, più simile ad un’eterna correzione di bozze che ad una marcia trionfale verso la verità.

Elogio dell’errore cosciente e del fallimento generativo

Siamo giunti al termine di questo viaggio attraverso il ruolo dell’errore e della serendipità nell’evoluzione dell’universo, della vita e della conoscenza. In un mondo sempre più complesso ed interconnesso, è cruciale riconsiderare il nostro rapporto con l’incertezza e l’imperfezione.

Come ha scritto il filosofo Edgar Morin nel suo “Introduzione al pensiero complesso”: “La complessità è una sfida alla conoscenza, non una soluzione. […] Il pensiero complesso non rifiuta la chiarezza, l’ordine, il determinismo. Sa solo che sono insufficienti.”

In questa prospettiva, l’errore cosciente – inteso come apertura consapevole all’imprevisto, al rischio e all’imperfezione – diventa non solo una strategia adattativa, ma un vero e proprio imperativo etico e cognitivo. In un mondo complesso, in rapido cambiamento, caratterizzato da sfide globali e crisi sistemiche, la capacità di abbracciare l’errore come opportunità di apprendimento e di innovazione diventa cruciale per la nostra sopravvivenza e il nostro fiorire come specie.

Questo non significa, naturalmente, celebrare l’incompetenza o l’irresponsabilità. L’elogio dell’errore cosciente è piuttosto un invito alla curiosità, all’umiltà epistemica e al coraggio intellettuale. È un richiamo a coltivare ciò che il poeta John Keats definiva ‘capacità negativa’ – l’abilità di rimanere nell’incertezza e nel dubbio senza l’ansiosa ricerca di fatti e ragioni immediate. Keats vedeva in questa capacità la fonte della vera creatività e comprensione profonda. Si tratta della disposizione a tollerare l’ambiguità, ad abbracciare il mistero senza cercare di risolverlo prematuramente, e a rimanere aperti a molteplici possibilità interpretative.                                                                                                 

Come ha scritto il fisico e saggista Carlo Rovelli: “La scienza ci insegna a dubitare. È la lezione più preziosa che ci dà. […] Il dubbio è fertile. Genera nuove idee. Ci mantiene aperti a nuove visioni del mondo.”

Nella pratica, questo approccio potrebbe tradursi nel creare spazi sicuri per l’esplorazione e la sperimentazione, sia nella ricerca scientifica che nella vita quotidiana. Potrebbe significare incoraggiare la diversità di pensiero nelle organizzazioni, celebrare i “fallimenti istruttivi” e promuovere una cultura dell’apprendimento continuo.

Per concludere, la riscoperta del caso e dell’errore come ingredienti essenziali della creazione e dell’innovazione ci invita a riconsiderare profondamente il nostro rapporto con l’imperfezione, l’incertezza e il fallimento. Ci sfida a sviluppare una nuova etica dell’errore, basata non sulla ricerca ossessiva della perfezione, ma sulla valorizzazione della diversità, della resilienza e della capacità di apprendimento. Un nuovo richiamo alla responsabilità, che ci chiede di bilanciare il coraggio di sbagliare con la responsabilità di imparare, la libertà di esplorare con il dovere di prenderci cura di noi stessi, del prossimo, della natura, dei territori, del pensiero.

In questa prospettiva, l’errore cosciente diventa non solo un mezzo per l’innovazione e la scoperta, ma un modo – per dirla con Heidegger – di “essere-nel-mondo”, ovvero di abitare il mondo come orizzonte di possibilità e di progettualità, prendendosi cura delle cose e degli enti che si offrono al nostro agire. È proprio attraverso le nostre imperfezioni, le nostre deviazioni e i nostri fallimenti che creiamo, evolviamo e, in ultima analisi, trascendiamo i limiti del già dato al fine di realizzare le nostre possibilità esistenziali.

Paradossalmente, è nell’abbracciare l’errore e l’incompiutezza – intesi come apertura inesauribile alla ricerca e rifiuto di ogni approdo definitivo – che possiamo attingere alla nostra più alta forma di realizzazione e di creatività. Come suggerisce Rainer Maria Rilke nelle sue “Lettere a un giovane poeta”, è solo immergendoci pienamente nelle domande e nelle incertezze, senza la pretesa di risposte immediate o definitive, che possiamo maturare e crescere fino a “vivere” le risposte, quasi senza accorgercene.

“Abbi pazienza verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e prova ad amare le domande stesse, come stanze chiuse o libri scritti in una lingua straniera. Non cercare ora le risposte che non possono esserti date, poiché non sapresti viverle. E il punto, invece, è vivere tutto. Vivi le domande ora e forse, un giorno non troppo lontano, senza nemmeno accorgertene, ti ritroverai a vivere le risposte.”

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