Recenti sviluppi nell’ambito delle scienze della complessità hanno portato alcuni studiosi a proporre riflessioni innovative sulla natura pervasiva e auto-organizzante del capitalismo contemporaneo. In particolare, ricercatori come Nigel Thrift, Brian Arthur e Yaneer Bar-Yam hanno argomentato di come le società umane, inclusi i sistemi economico-burocratici, possano essere viste come sistemi complessi auto-organizzanti e di come alcune delle loro sovrastrutture, il capitalismo contemporaneo in particolare, operi in modi che ricordano molto da vicino i sistemi di intelligenza collettiva osservati in natura, come la cosiddetta Swarm Intelligence o intelligenza di sciame.
I sistemi di Swarm Intelligence sono composti da molti agenti semplici che interagiscono tra loro dando vita a comportamenti collettivi complessi e auto-organizzati, senza un controllo centrale. Attraverso semplici regole locali di interazione, questi sistemi sono in grado di risolvere problemi e adattarsi all’ambiente in modo sorprendentemente efficace, come avviene ad esempio negli sciami di insetti o negli stormi di uccelli.
Questo fenomeno descrive il comportamento emergente di sistemi collettivi decentralizzati, come quelli osservati nelle colonie di insetti. Tuttavia, come vedremo, esistono delle sostanziali differenze tra la Swarm Intelligence in natura e il funzionamento del capitalismo, in particolare in termini di output e di obiettivi.
Nigel Thrift, nel suo lavoro “Knowing Capitalism”, esplora come il capitalismo contemporaneo operi in modi che ricordano i sistemi di intelligenza collettiva osservati in natura. L’idea centrale è che il capitalismo, come un sistema di Swarm Intelligence, emerge da interazioni decentrate e apparentemente caotiche tra molteplici agenti, producendo comportamenti e strutture complesse a livello macro.
Quali sono i punti chiave di questo parallelo?
- Emergenza: come in uno sciame di insetti, dove comportamenti complessi emergono dalle interazioni semplici tra individui, nel capitalismo le dinamiche di mercato, i trend economici e le innovazioni emergono dalle interazioni tra innumerevoli attori economici.
- Adattabilità: i sistemi di Swarm Intelligence sono noti per la loro capacità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti ambientali. Allo stesso modo, il capitalismo mostra una notevole capacità di adattarsi a nuove condizioni, crisi e opportunità.
- Assenza di controllo centralizzato: così come uno sciame non ha un “leader” che dirige le azioni individuali, il capitalismo opera senza un controllo centrale, basandosi invece su meccanismi distribuiti come i prezzi di mercato per coordinare le attività.
- Ottimizzazione distribuita: gli sciami sono capaci di trovare soluzioni ottimali a problemi complessi attraverso l’esplorazione collettiva. Analogamente, i mercati capitalistici sono spesso visti come meccanismi per allocare risorse e risolvere problemi economici in modo distribuito.
- Feedback e amplificazione: nei sistemi di Swarm Intelligence, piccoli segnali possono essere amplificati attraverso feedback positivi, portando a cambiamenti rapidi nel comportamento collettivo. Nel capitalismo, fenomeni come le bolle speculative o le tendenze di mercato mostrano dinamiche simili.
- Robustezza e fragilità: gli sciami sono robusti in quanto il sistema può funzionare anche se alcuni individui falliscono, ma possono essere vulnerabili a certi tipi di perturbazioni. Allo stesso modo, il capitalismo mostra resilienza di fronte a molte sfide, ma può essere soggetto a crisi sistemiche.
Il parallelo tra il capitalismo e la swarm intelligence suggerito da Nigel Thrift trova una brillante illustrazione nell’esempio della matita, reso celebre da Milton Friedman e originariamente presentato da Leonard Read nel suo saggio “I, Pencil”. Questo classico esempio economico mostra come la produzione di un oggetto apparentemente semplice come una matita richieda la cooperazione inconsapevole di migliaia di persone in tutto il mondo, ognuna specializzata in un compito specifico.
Nella produzione di una matita, dal legno alla grafite, dalla vernice al metallo dell’anellino, ogni componente proviene da una catena di produzione complessa e globale. Nessun singolo individuo possiede la conoscenza o le capacità per produrre una matita da solo. Tuttavia, attraverso il sistema di prezzi e gli incentivi di mercato, tutte queste attività si coordinano in modo decentralizzato, senza la necessità di una direzione centrale.
Ma per quali ragioni questo processo rispecchia perfettamente il concetto di swarm intelligence applicato al capitalismo. Riprendiamo i punti chiave del processo che abbiamo delineato e proviamo a declinarlo al caso di specie:
- Emergenza: la produzione efficiente della matita emerge dalle azioni coordinate ma non pianificate centralmente di innumerevoli individui.
- Adattabilità: il sistema si adatta rapidamente ai cambiamenti, come la scarsità di una risorsa o l’introduzione di nuove tecnologie.
- Assenza di controllo centralizzato: nessuna singola entità orchestra l’intero processo di produzione.
- Ottimizzazione distribuita: il mercato alloca risorse e coordina attività in modi che tendono verso l’efficienza, senza un piano centrale.
- Feedback e amplificazione: i cambiamenti nei prezzi o nella domanda si propagano rapidamente attraverso la catena di produzione.
L’esempio della matita illustra come il capitalismo, simile a un sistema di Swarm Intelligence, possa coordinare attività complesse senza una direzione consapevole, come fosse una sorta di algoritmo sociale, producendo risultati che nessun pianificatore centrale potrebbe facilmente replicare. Tuttavia, è importante notare che, mentre questo sistema mostra un’incredibile capacità di coordinamento e efficienza in certi aspetti, non necessariamente ha la capacità di armonizzare il risultato economico con obiettivi sociali più ampi come l’equità o la sostenibilità ambientale.
Questo parallelo, infatti, non deve essere inteso come una celebrazione dell’efficienza del capitalismo. Non implica che il capitalismo sia un sistema naturale o inevitabile, né che produca necessariamente risultati ottimali per la società nel suo complesso. Al contrario, come sottolineato da David Harvey, esso ci offre un modo per comprendere la natura coercitiva, pervasiva e auto-perpetuante del sistema capitalista.
È essenziale evidenziare una differenza fondamentale tra la swarm intelligence in natura e il funzionamento del capitalismo. Mentre i sistemi di swarm intelligence in natura tendono generalmente verso l’ottimizzazione del benessere collettivo della specie o dell’ecosistema, il capitalismo, con il suo sistema di mercato e gli attuali incentivi individuali, non necessariamente porta a un’ottimizzazione che va nella direzione di ciò che è giusto e socialmente desiderabile.
Il capitalismo, infatti, o almeno così vorrebbe la dottrina economica, tenderebbe a raggiungere l’interesse collettivo attraverso l’incentivo alla massimizzazione del vantaggio per i singoli partecipanti, in altre parole attraverso il mercato e il sistema dei prezzi la somma degli egoismi individuali ha come risultato il benessere collettivo e un’equa allocazione delle risorse. Sebbene, all’apparenza, questo possa portare a risultati efficienti in termini organizzativi e produttivi – come nel caso della matita – spesso lo fa a costo di gravi esternalità negative.
Per esempio, la produzione efficiente può basarsi sullo sfruttamento insostenibile di risorse, spesso in Paesi deboli e in via di sviluppo, portando alla distruzione di habitat naturali e minando il sostentamento delle popolazioni locali. L’efficienza economica, inoltre, spesso si traduce in condizioni di lavoro precarie e in forme di sottoccupazione a basso/bassissimo salario, specialmente nelle parti più vulnerabili della catena di produzione globale. Va anche considerato che i profitti generati, anziché essere equamente distribuiti lungo la catena di valore, tendono a concentrarsi nelle mani di pochi, grazie a posizioni di mercato dominanti, fusioni e acquisizioni, la creazione di monopoli e oligopoli diffusi e strategie di marketing aggressive.
Il potere finanziario così accumulato crea nuove opportunità di sfruttamento e estrazione di valore, ampliando il divario economico in un processo che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, ricorda l’aumento dell’entropia in un sistema chiuso. Infine, la ricerca del profitto a breve termine spesso ignora i costi ambientali a lungo termine, portando a un sovrasfruttamento delle risorse naturali.
Questa dinamica rivela un ‘bug’ fondamentale nell’algoritmo del capitalismo.
Il capitalismo non è in grado di generare efficienza locale se non a costo di disfunzioni globali significative. Come vedremo meglio in seguito, l’ottimizzazione degli interessi individuali non solo non sembrerebbe tradursi automaticamente in un ottimo sociale o ecologico come vorrebbero farci credere, bensì sembrerebbe spingere nella direzione esattamente opposta.
Riconoscere questa divergenza è di cruciale importanza per una critica informata del sistema capitalista. Si tratta di una prospettiva che ci invita a riconsiderare come potremmo modificare gli incentivi e le strutture economiche al fine di meglio allineare l’interesse individuale con il benessere collettivo, immaginando di far emergere sistemi di auto-organizzazione alternativi attraverso dei sistemi di incentivi che consentano al sistema economico di mantenere alti livelli di efficienza e di adattabilità limitando al contempo i BIAS e le tendenze distruttive dell’attuale modello.
La swarm intelligence e i sistemi auto-organizzanti
La swarm intelligence è una proprietà che emerge in sistemi composti da molti agenti semplici che interagiscono tra loro e con l’ambiente seguendo regole elementari. Dalle interazioni locali tra questi agenti emergono dinamiche globali complesse e adattive, che permettono al sistema di trovare soluzioni efficaci a problemi come la ricerca di cibo o la costruzione di nidi.
Il concetto di swarm intelligence, formalizzato da Gerardo Beni e Jing Wang nel 1989, offre un’analogia potente per comprendere il funzionamento del capitalismo come un sistema decentralizzato che produce ordine attraverso l’interazione di molteplici agenti. Come in una colonia di formiche, nel capitalismo le decisioni di consumatori, lavoratori e investitori, guidate da segnali di mercato e incentivi individuali, danno luogo a dinamiche di sistema che nessuno ha progettato intenzionalmente.
Tuttavia, a differenza dei sistemi naturali di swarm intelligence, il cui comportamento auto-organizzante porta generalmente a risultati vantaggiosi per il collettivo, nel capitalismo l’assenza di un controllo centralizzato non produce necessariamente benessere diffuso. Al contrario, le interazioni guidate dall’interesse individuale finiscono spesso per perpetuare e ad amplificare disuguaglianze e asimmetrie di potere.
Se da un lato il capitalismo presenta una flessibilità e un’adattabilità che lo avvicinano ai sistemi di swarm intelligence, dall’altro esso riproduce e intensifica le logiche di controllo, standardizzazione e alienazione proprie della burocrazia. Attraverso queste dinamiche, il capitalismo finisce per creare una gabbia d’acciaio burocratica che imprigiona gli individui in strutture all’apparenza razionali (se ne prendiamo per buoni gli assunti di base) ma che in realtà sono spesso disumanizzanti, in quanto incuranti di alcune delle qualità umane più importanti e profonde.
In questo senso, il capitalismo può essere visto come un sistema ibrido, una terrificante mutazione che combina caratteristiche dei sistemi auto-organizzanti con quelle delle burocrazie gerarchiche. Questa duplice natura rende il capitalismo un sistema al tempo stesso resiliente e oppressivo, capace di adattarsi e di perpetuarsi nonostante le sue contraddizioni interne.
L’etica capitalista e lo spirito della burocrazia
Alcuni teorici hanno suggerito che il capitalismo possa essere inteso come un algoritmo sociale auto-apprendente, che funziona in modo analogo a un sistema a swarm intelligence, ma con esiti profondamente diversi. In questa prospettiva, gli agenti individuali (imprese, consumatori, lavoratori) interagiscono tra loro sulla base di semplici regole (la ricerca del profitto, la competizione, l’accumulazione) dando luogo a dinamiche complesse a livello di sistema che perpetuano e rafforzano le disuguaglianze esistenti.
Questa visione del capitalismo sembra porlo in totale continuità con il concetto weberiano di burocrazia. Come osservato da Max Weber, la burocrazia moderna, di cui il capitalismo può essere considerato manifestazione, crea un sistema di dominio razionale-legale che imprigiona gli individui in una rete di regole e procedure apparentemente neutrali ma profondamente coercitive. Il capitalismo, in questo senso, funziona come una burocrazia pervasiva che estende la sua logica a ogni aspetto della vita sociale.
Weber descrisse la burocrazia moderna come un sistema di dominio razionale-legale caratterizzato da regole impersonali, gerarchia, specializzazione e meritocrazia formale. Il capitalismo contemporaneo ha assimilato e amplificato queste caratteristiche burocratiche, estendendole ben oltre i confini delle organizzazioni formali fino a permeare ogni aspetto della vita sociale ed economica.
Come nella burocrazia weberiana, il capitalismo odierno opera attraverso un sistema di regole e procedure standardizzate che si applicano in modo impersonale, indipendentemente dalle caratteristiche individuali. Le grandi corporazioni, i mercati finanziari e persino le piattaforme digitali funzionano secondo logiche algoritmiche che ricordano la razionalità procedurale della burocrazia. La gerarchia, altro elemento chiave della burocrazia weberiana, si manifesta nel capitalismo attraverso strutture di potere economico fortemente stratificate, sia all’interno delle aziende che nella società nel suo complesso.
In questo senso, il capitalismo contemporaneo può essere visto come una forma evoluta e pervasiva di burocrazia, che combina le caratteristiche coercitive e alienanti della ‘gabbia d’acciaio’ weberiana con la flessibilità e l’adattabilità dei sistemi di swarm intelligence.
Ciò che guida il comportamento del sistema non è un piano predefinito o una volontà cosciente, ma un insieme di incentivi e feedback che premiano certi comportamenti e ne scoraggiano altri. Il denaro, in particolare, funziona come una sorta di “feromone digitale” che orienta le azioni degli agenti individuali, proprio come le tracce chimiche guidano il comportamento delle formiche in una colonia. Proprio come le tracce di feromoni lasciate dalle formiche influenzano il comportamento dell’intera colonia, orientandola verso le fonti di cibo, allo stesso modo il denaro, nel capitalismo, guida le azioni dei singoli agenti verso le opportunità di profitto, incarna gli incentivi, plasmando le dinamiche di potere e condizionando così il comportamento dei singoli in relazione agli altri e all’intero sistema.
Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nelle colonie di insetti in cui questi meccanismi lavorano per il bene collettivo, nel capitalismo questa dinamica tende a perpetuare e accentuare le disuguaglianze sociali e a produrre esternalità negative. Ciò avviene perché gli incentivi e i feedback del sistema premiano sistematicamente comportamenti che massimizzano i benefici individuali, spesso premiando i comportamenti e le qualità umane più sgradevoli perpetrati a scapito del benessere collettivo.
Nelle prossime sezioni, approfondiremo questa duplice natura del capitalismo, esplorando come le dinamiche burocratiche e auto-organizzanti si manifestino nei vari aspetti del sistema e quali siano le implicazioni di questa “gabbia d’acciaio” estesa per la vita degli individui e per la possibilità di immaginare alternative.
Un algoritmo pervasivo e adattivo
La forza del capitalismo come algoritmo sociale risiede nella sua capacità di permeare ogni aspetto della vita, di plasmare non solo le transazioni economiche ma anche le relazioni sociali, i valori culturali, le scelte politiche. Proprio come un sistema a swarm intelligence colonizza un ambiente, il capitalismo tende a sussumere e metabolizzare ogni sfera dell’esistenza, riducendola a merce e a occasione di profitto.
Questa pervasività crea quella che Weber aveva definito gabbia d’acciaio, una struttura sociale rigida e apparentemente ineluttabile che imprigiona gli individui. La capacità adattiva del capitalismo, così come quella della burocrazia, non ha come scopo quello di produrre benessere collettivo, ma quello di rafforzare e perpetuare questa gabbia, trovando sempre nuovi modi per espandersi e riprodursi anche di fronte alle sfide e alle crisi.
Cambiando costantemente pur di mantenersi uguale a se stessa.
Proprio come una colonia di formiche è in grado di trovare sempre nuove risorse e di far fronte a situazioni inedite, così il capitalismo ha dimostrato di saper rispondere alle sfide più diverse, dalle rivoluzioni tecnologiche alle crisi geopolitiche, trovando sempre nuovi modi per riorganizzarsi, rinascere, crescere e prosperare (fino alla crisi successiva). Tuttavia, mentre l’adattabilità delle colonie di insetti serve alla sopravvivenza collettiva, l’adattabilità del capitalismo serve principalmente a mantenere e rafforzare il sistema e le strutture di potere esistenti in maniera del tutto agnostica ed impersonale.
Un sistema senza piloti ma non senza beneficiari
Una delle implicazioni più sconcertanti di questa analogia è che il capitalismo, come algoritmo auto-organizzante, non ha bisogno di piloti o di capi per funzionare. Nessun singolo individuo o gruppo controlla il sistema nella sua globalità. Anche le élite più potenti sono in definitiva parte del sistema stesso, agenti tra gli altri che seguono le regole del gioco.
Tuttavia, ciò non significa che il capitalismo sia un sistema neutro o naturale emerso nel corso dei millenni dall’evoluzione biologica. Al contrario, esso è il prodotto di una specifica evoluzione storica e di precisi rapporti di forza tra classi sociali, nato con l’obiettivo di favorire il potere di alcuni a scapito di altri. Il sistema, pur non avendo un pilota, ha chiare categorie di beneficiari che prosperano mentre la maggioranza rimane intrappolata nella gabbia d’acciaio.
Questa visione si allinea con l’analisi di Weber sulla burocrazia come forma di dominio razionale-legale. Anche se nessun individuo controlla completamente il sistema burocratico, esso serve comunque a mantenere e legittimare determinate strutture di potere. Nel caso del capitalismo, l’apparente neutralità e impersonalità del sistema maschera e perpetua profonde disuguaglianze sociali ed economiche.
Freedom rules
Un aspetto paradossale del capitalismo contemporaneo è come esso sia riuscito a conciliare la retorica della deregolamentazione e del libero mercato con un’espansione senza precedenti delle logiche burocratiche. La svolta neoliberista degli ultimi decenni, pur presentandosi come una liberazione dell’iniziativa individuale dai lacci della burocrazia statale, ha in realtà creato le condizioni per una nuova burocratizzazione pervasiva.
Dietro la facciata della deregulation, il neoliberismo ha promosso forme di regolazione e controllo ancora più capillari e invasive, che hanno trovato nel capitalismo un nuovo spazio di incarnazione. Lo spirito della burocrazia, per usare un termine caro a Weber, non è stato sconfitto dalla controrivoluzione neoliberale, ma si è piuttosto diffuso e rafforzato, permeando ogni aspetto della vita sociale ed economica.
Si pensi, ad esempio, alla proliferazione di standard, protocolli, sistemi di audit e valutazione che caratterizza il capitalismo contemporaneo. Dalle catene di fornitura globali alle piattaforme digitali, dalle università alle start-up innovative, ogni ambito è sottoposto a forme di quantificazione, misurazione e certificazione sempre più sofisticate e pervasive, che riproducono le logiche di controllo e standardizzazione tipiche della burocrazia.
Questa nuova burocrazia non opera più (solo) attraverso la rigidità delle procedure formali, ma attraverso l’apparente fluidità di indicatori, benchmark e algoritmi che incanalano i comportamenti individuali verso obiettivi prestabiliti. La libertà di scelta tanto celebrata dal neoliberismo si rivela così una libertà strettamente condizionata, in cui gli individui sono liberi di competere e di auto-valorizzarsi, ma sempre all’interno di una griglia di parametri e incentivi che li trascende.
Il paradosso è che questa burocratizzazione diffusa non è il residuo di un vecchio mondo statalista, ma il prodotto stesso delle politiche neoliberali. Smantellando le protezioni sociali e le forme di regolazione collettiva, il neoliberismo ha di fatto creato un vuoto che è stato riempito da nuove forme di controllo privatizzato e decentralizzato, più pervasive ed efficaci di quelle statali.
Così, mentre a livello ideologico il neoliberismo celebra l’individualismo e la libertà di mercato, a livello pratico esso rafforza la gabbia d’acciaio weberiana, estendendola a sfere sempre più ampie dell’esistenza. Il capitalismo contemporaneo si rivela quindi non il superamento, ma l’apoteosi della burocrazia, capace di sussumere le stesse spinte anti-burocratiche e di piegarle ai propri fini.
Regolamenti a garanzia della deregolamentazione
Un aspetto particolarmente interessante della nuova burocratizzazione neoliberale è ciò che potremmo chiamare la burocrazia della destatalizzazione. Paradossalmente, il processo di smantellamento dello stato regolatore e di affermazione del primato del mercato si è accompagnato a una proliferazione di regole, standard e procedure volte a preservare e a inscrivere nella realtà questo stesso primato.
In altri termini, per far sì che il mercato potesse operare come un’entità autonoma e autoregolata, è stato necessario istituire un complesso apparato normativo e amministrativo che ne definisse i presupposti e ne garantisse il funzionamento. La deregolamentazione, lungi dall’essere un processo spontaneo, ha richiesto e richiede un’intensa attività di regolamentazione e di vigilanza.
Basti pensare alla mole di legislazione necessaria per privatizzare i servizi pubblici, per liberalizzare i mercati finanziari, per garantire la concorrenza e la trasparenza nelle transazioni. O ancora, si pensi ai complessi sistemi di certificazione e accreditamento che si sono moltiplicati per garantire la qualità e l’affidabilità dei prodotti e dei servizi in un contesto di deregolamentazione.
Questa “burocrazia di secondo livello” non mira più a regolare direttamente l’attività economica, ma a creare e mantenere le condizioni per la sua presunta autoregolazione. Essa opera in modo meno visibile e centralizzato rispetto a quella statale, ma non per questo è meno pervasiva e coercitiva. Anzi, proprio la sua apparente neutralità e tecnicità le conferisce un potere ancora maggiore di condizionamento delle condotte individuali.
Così, mentre a livello retorico il neoliberismo contrappone la libertà del mercato all’oppressione della burocrazia, a livello pratico esso genera una nuova simbiosi tra mercato e burocrazia, in cui quest’ultima diventa lo strumento per imporre e naturalizzare la logica del primo. La “gabbia d’acciaio” weberiana non viene abbattuta, ma ristrutturata in forma di una “gabbia di silicio e carta” ancora più efficiente e totalizzante.
Oligopoli by design: la regolamentazione asimmetrica
Un aspetto particolarmente significativo di questa “burocrazia di secondo livello” è il suo ruolo nel consolidamento e nella protezione degli oligopoli. Paradossalmente, i regolamenti che dovrebbero promuovere la concorrenza e proteggere il mercato finiscono spesso per cristallizzare le posizioni dominanti e creare barriere all’ingresso invalicabili per i nuovi entranti.
Questo processo opera attraverso diversi meccanismi. In primo luogo, la complessità stessa della regolamentazione diventa uno strumento di selezione darwiniana invertita: solo le organizzazioni più grandi e strutturate possono permettersi gli investimenti necessari per navigare il labirinto normativo. Il costo della compliance – dai requisiti di capitale alle procedure di risk management, dalle certificazioni agli obblighi di reporting – funziona come un filtro che favorisce sistematicamente gli incumbent rispetto ai potenziali innovatori.
In secondo luogo, il processo di produzione normativa tende ad essere catturato dagli stessi soggetti che dovrebbe regolare. Le grandi corporation hanno le risorse per influenzare il quadro regolatorio attraverso il lobbying, la produzione di “expertise” tecnica, e il fenomeno delle “porte girevoli” tra regolatori e regolati. Il risultato è un corpus normativo che, dietro l’apparenza della neutralità tecnica, codifica e protegge i modelli di business dominanti.
Questa dinamica è particolarmente evidente in settori come quello finanziario, farmaceutico o delle telecomunicazioni, dove la complessità regolamentare serve spesso come scudo protettivo per gli oligopoli esistenti. La regolamentazione diventa così uno strumento paradossale: invece di democratizzare il mercato, ne consolida le gerarchie; invece di promuovere l’innovazione, la incapsula in percorsi predefiniti e controllabili.
Si crea così un circolo vizioso: più il sistema diventa complesso e regolamentato, più favorisce la concentrazione del potere economico; più il potere si concentra, più è in grado di influenzare la produzione di nuove regole a proprio vantaggio. La burocrazia, lungi dall’essere un freno al capitalismo oligopolistico, ne diventa uno strumento essenziale di autopreservazione.
Questo meccanismo rivela un’ulteriore dimensione dell’algoritmo capitalista: la sua capacità di trasformare gli stessi strumenti pensati per controllarla in leve del proprio rafforzamento. Come un virus che muta per resistere agli antibiotici, il sistema non solo si adatta alle regole ma le coopta, trasformandole in barriere protettive per i privilegi acquisiti.
La comprensione di questa dinamica è cruciale per qualsiasi progetto di trasformazione del sistema. Non basta invocare più o meno regolamentazione: occorre ripensare radicalmente la natura stessa dei meccanismi regolativi, immaginando forme di governance che non siano vulnerabili a questa cattura oligopolistica. Questo potrebbe significare, ad esempio, privilegiare regole semplici e universali rispetto a framework complessi, o sviluppare meccanismi di controllo dal basso invece che dall’alto.
Un aspetto particolarmente insidioso di questo processo è l’imposizione di standard uniformi che ignorano deliberatamente le differenze di scala e di contesto. È come se esistesse un’unica misura di scarpe per tutti i piedi, e questa misura fosse calibrata sui giganti del mercato. Gli stessi requisiti normativi, le stesse procedure di compliance, gli stessi standard tecnici vengono applicati indiscriminatamente a organizzazioni di dimensioni e nature profondamente diverse.
Questa omogeneizzazione forzata ha effetti profondamente anti-competitivi. Ciò che per una multinazionale può essere un costo marginale – che sia l’implementazione di un sistema di compliance, l’adeguamento a nuovi standard ambientali, o l’aggiornamento di procedure di sicurezza – per una piccola impresa può rappresentare un onere insostenibile. Non si tratta solo di una questione di risorse finanziarie, ma anche di capacità organizzativa, expertise tecnica, e capitale umano.
La standardizzazione regolamentare diventa così uno strumento di selezione darwiniana al contrario: invece di premiare l’innovazione e l’efficienza, premia la dimensione e la capacità di assorbire costi burocratici. Le grandi organizzazioni non solo sono avvantaggiate nel rispettare gli standard, ma spesso partecipano attivamente alla loro definizione, assicurandosi che siano calibrati sulle proprie caratteristiche e capabilities.
Questo meccanismo è particolarmente evidente in settori come quello alimentare, dove le normative igienico-sanitarie, pur formalmente identiche per tutti, impongono di fatto modelli organizzativi e produttivi tipici della grande industria, penalizzando sistematicamente i piccoli produttori e le produzioni artigianali. O nel settore bancario, dove i requisiti di capitale e i sistemi di controllo del rischio sono dimensionati sulle grandi banche, rendendo sempre più difficile l’esistenza di istituti di credito locali e cooperativi.
Il meccanismo è particolarmente evidente nel sistema degli appalti pubblici, che rappresenta un caso di studio perfetto di come la regolamentazione apparentemente neutrale generi distorsioni sistematiche. Le gare pubbliche richiedono tipicamente garanzie finanziarie, certificazioni e requisiti di capacità che solo le grandi aziende possono soddisfare. Questo crea un paradosso perverso: le grandi imprese vincono gli appalti grazie alla loro “solidità”, ma poi non eseguono direttamente i lavori. Invece, attivano catene di subappalti, redistribuendo il lavoro effettivo alle stesse piccole imprese che erano state escluse dalla gara originaria.
Questa catena di intermediazione ha effetti devastanti. Una quota significativa del budget pubblico viene assorbita dai passaggi intermedi, riducendo le risorse disponibili per l’esecuzione effettiva dei lavori. La qualità delle opere ne risente, poiché ogni passaggio della catena deve recuperare un margine comprimendo i costi. Si crea un sistema di sottoccupazione strutturale, dove le piccole imprese sono costrette ad accettare condizioni sempre più sfavorevoli per sopravvivere. Inoltre, la frammentazione delle responsabilità rende più difficile il controllo e la verifica della qualità.
Il risultato è un sistema che non solo è inefficiente dal punto di vista economico, ma produce attivamente precarizzazione e degrado qualitativo, tutto mentre rispetta formalmente i requisiti di “trasparenza” e “concorrenza”. È l’ennesima dimostrazione di come l’algoritmo del capitalismo riesca a trasformare anche gli strumenti di controllo pubblico in meccanismi di estrazione del valore e consolidamento oligopolistico.
L’individualismo e la frammentazione delle alternative
Un altro aspetto cruciale del capitalismo come algoritmo sociale è la sua capacità di promuovere una spinta all’individualismo che frammenta e indebolisce le potenziali alternative ad esso. Il sistema premia e incentiva comportamenti competitivi e autointeressati, spingendo le persone a concepire il proprio destino come separato da quello della collettività.
Questa tendenza individualizzante del capitalismo avanzato riflette ciò che Weber chiamava il disincanto del mondo, un processo in cui i valori comunitari e le forme di solidarietà tradizionali vengono erosi, lasciando gli individui isolati di fronte a un sistema impersonale e apparentemente inesorabile. Come se questo non bastasse, ogni spinta alla ribellione è sedata ad origine da costanti distrazioni e da bisogni indotti, che finiscono per far perdere la visione di insieme nella ricerca costante del piacere e dell’appagamento personale (come già aveva osservato anche Huxley).
In questo contesto, anche quando emergono tentativi di costruire modelli alternativi, questi spesso assumono la forma di micro-sperimentazioni locali, di nicchie identitarie che finiscono per riprodurre logiche di separatezza e autosufficienza.
Invece di convergere in un progetto di trasformazione complessiva della società, le energie di cambiamento si disperdono in una miriade di esperienze frammentate e spesso autoreferenziali, spesso incapaci di sfuggire dalla tentazione di cercare mercato e di fare proselitismo digitale per trovare fonti di sostentamento che rendano sostenibili molte di queste esperienze (parlo ad esempio della tendenza a creare canali, contenuti e diventare influencers portando acqua al mulino di piattaforme che spesso rappresentano in maniera plastica proprio il mondo di cui ci si volevano allontanare.
Questo finisce per depotenziare molte di queste iniziative che finiscono per trasformarsi nel personal branding di qualcuno di cui gli altri finiscono per essere in maniera più meno consapevole solo degli accoliti o peggio degli adepti.
Ciò accade perché, in un sistema che esalta il merito individuale e la responsabilità personale, le persone sono portate a pensare che sia più semplice e realistico migliorare la propria condizione particolare piuttosto che quella collettiva. I problemi sociali vengono ridotti a fallimenti individuali, le disuguaglianze appaiono come il risultato naturale delle differenze di talento e impegno.
Così, anche quando si riconoscono le storture e le contraddizioni del sistema, la soluzione viene cercata in una via di fuga personale, in un percorso di valorizzazione o messa all’incanto di sé che permetta di emergere dalla massa e conquistare una delle posizioni di vantaggio che il sistema offre, un posto al sole attraverso a cui sfuggire all’amaro destino di chi non la forza o le doti per farcela. L’idea di un cambiamento collettivo, di una lotta comune per trasformare le regole del gioco, appare sempre più irrealistica e velleitaria.
Il paradosso delle alternative dipendenti
Questa dinamica individualizzante produce un paradosso.
Molte delle esperienze che si propongono come alternative al capitalismo finiscono per dipendere, per il proprio sostentamento e la propria riproduzione, proprio dal sistema che intendono contestare. Pensiamo a certe comunità intenzionali che, pur promuovendo stili di vita solidali e sostenibili, dipendono dalla vendita dei propri prodotti sul mercato globale, o a certi spazi occupati che, pur praticando forme di mutualismo, sono costretti a cercare finanziamenti da istituzioni pubbliche o private.
Questo paradosso riflette ciò che Weber chiamava la razionalizzazione della società moderna, un processo in cui anche le forme di resistenza e di alternativa finiscono per essere assorbite e integrate nella logica burocratica e capitalista dominante. La gabbia d’acciaio del capitalismo si dimostra così capace non solo di resistere alle sfide, ma di incorporarle e neutralizzarle.
Questa dipendenza non è solo materiale, ma anche simbolica e psicologica. In un contesto in cui l’identità personale è sempre più legata al consumo e allo status sociale, anche le scelte di vita alternative rischiano di ridursi a una forma di distinzione, a un modo per costruire una narrazione di sé come individuo speciale e consapevole.
L’alternativa diventa un brand, un lifestyle da esibire più che una pratica di trasformazione sociale.
Intendiamoci, non si tratta di svalutare il significato e l’importanza di queste esperienze. Esse rappresentano spesso tentativi autentici di sperimentare modi di vita e di relazione più umani e solidali, di creare spazi di condivisione e di mutuo aiuto. Ma il rischio è che, se non si connettono a una prospettiva di cambiamento più ampia, finiscano per rimanere enclave isolate, incapaci di incidere realmente sulle logiche sistemiche.
Verso una nuova intelligenza connettiva e collettiva
La sfida, allora, è quella di trovare modi per far convergere queste esperienze di alternativa in un progetto comune, per farle diventare il terreno di coltura di una nuova “intelligenza collettiva” capace di sfidare quella del capitalismo. Ciò richiede di superare la logica individualistica e competitiva che il sistema ci inculca, per riscoprire il valore della cooperazione e della solidarietà.
Non si tratta di negare le differenze o di imporre un’uniformità artificiosa, ma di creare le condizioni perché le singole sperimentazioni possano contaminarsi a vicenda, imparare le une dalle altre, convergere in un orizzonte di senso condiviso. Di inventare forme di coordinamento e di organizzazione che permettano di mettere in comune risorse e conoscenze, di amplificare l’impatto delle pratiche alternative.
In questo senso, alcune esperienze di economia solidale, di reti collaborative, di mutualismo digitale rappresentano dei tentativi promettenti di costruire un’intelligenza collettiva alternativa a quella del capitalismo. Esse mostrano che è possibile creare forme di auto-organizzazione basate sulla condivisione e la partecipazione, che permettano di soddisfare i bisogni materiali e relazionali delle persone in modo più equo e sostenibile.
Certo, siamo ancora lontani dalla costruzione di un’alternativa sistemica al capitalismo. Ma forse la chiave è proprio questa: non pensare l’alternativa come un modello predefinito da applicare, ma come un processo di apprendimento collettivo, di sperimentazione continua, di costruzione dal basso di nuove forme di vita e di relazione sociale.
La post-verità e la frammentazione dell’informazione
Un altro aspetto cruciale del capitalismo come algoritmo sociale è la sua capacità di plasmare la produzione e la circolazione dell’informazione, creando un ambiente di post-verità in cui la distinzione tra fatti e opinioni, tra realtà e finzione, diventa sempre più sfumata.
In un contesto in cui l’informazione è sempre più abbondante ma anche sempre più frammentata e personalizzata, diventa difficile costruire una base di conoscenza condivisa su cui fondare il dibattito pubblico. Ogni individuo si costruisce la propria dieta informativa sulla base delle proprie preferenze e dei propri pregiudizi, spesso rinchiudendosi in bolle di filtraggio che rinforzano le sue convinzioni e lo isolano da prospettive diverse.
Questo processo di frammentazione è alimentato dalle logiche stesse del capitalismo digitale, che privilegia la velocità, la brevità, l’emotività dei contenuti rispetto alla loro accuratezza e profondità. Le piattaforme digitali, con i loro algoritmi di personalizzazione e le loro metriche di engagement, favoriscono la circolazione di informazioni sensazionalistiche e polarizzanti, che attirano l’attenzione e generano interazioni, a scapito di un’informazione più equilibrata e contestualizzata.
In questo ambiente, anche la verità diventa una merce come le altre, da produrre e vendere sul mercato dell’attenzione. La proliferazione di fake news, teorie del complotto, manipolazioni mediatiche non è un effetto collaterale del sistema, ma una sua componente strutturale, che risponde alla domanda di conferme e di eccitazione delle audience.
Le alternative come bolle di filtraggio
Questa dinamica di frammentazione e polarizzazione non risparmia nemmeno gli spazi e le pratiche che si propongono come alternative al capitalismo. Anch’essi rischiano di diventare bolle di filtraggio autoreferenziali, in cui si coltiva una visione del mondo in bianco e nero, fatta di certezze granitiche e di nemici assoluti.
Pensiamo a certi ambienti di attivismo radicale, in cui spesso prevale una logica identitaria e settaria, che divide il mondo in noi e loro, in puri e corrotti. O a certe comunità online alternative, in cui a volte si respira un’atmosfera di conformismo e di sospetto verso ogni forma di dissenso interno.
Anche in questi casi, il rischio è quello di riprodurre, anche se con segno opposto, le stesse logiche di semplificazione e di polarizzazione del discorso dominante. Di costruire narrazioni rassicuranti ma semplificate, che riducono la complessità del reale a una lotta tra buoni e cattivi. Di cercare la coesione del gruppo attraverso la demonizzazione dell’altro, piuttosto che attraverso un confronto aperto e plurale.
Intendiamoci, non si tratta di equiparare queste esperienze alla disinformazione mainstream o alle fabbriche di troll al soldo di interessi privati. Spesso questi spazi nascono da un autentico desiderio di verità e di giustizia, da una volontà di smascherare le menzogne del potere. Ma il rischio è che, se non si pratica un costante esercizio di autocritica e di apertura al dialogo, si finisca per sostituire una bolla con un’altra, una verità parziale con un’altra.
La sfida, allora, è quella di costruire spazi e pratiche di informazione e di discussione che sappiano essere al tempo stesso critici e inclusivi, capaci di smontare le narrazioni tossiche del capitalismo ma anche di accogliere la complessità e la pluralità delle prospettive. Di coltivare un ethos della verità come processo collettivo di ricerca, piuttosto che come possesso di una fazione.
Le sfide di un’alternativa
Riconoscere la natura algoritmica e auto-organizzante del capitalismo può aiutarci a comprendere meglio le difficoltà che incontriamo nell’immaginare e praticare alternative ad esso. Se il sistema funziona come una swarm intelligence, non basta sostituire i singoli piloti o introdurre correttivi locali: occorre ripensare le regole stesse su cui si basa l’interazione tra gli agenti.
Ciò richiede uno sforzo di immaginazione e di sperimentazione collettiva che sappia andare oltre le forme consuete della politica e dell’economia. Occorre inventare nuovi modi di cooperare, di condividere le risorse, di prendere decisioni, che non riproducano le dinamiche competitive e accumulative del capitalismo ma creino le condizioni per l’emergere di una diversa intelligenza collettiva.
Non si tratta di un compito facile, perché richiede di decostruire abitudini e mentalità profondamente radicate, di disimparare modi di essere e di fare che ci appaiono come naturali. Ma forse proprio la consapevolezza della natura artificiale e contingente del capitalismo come algoritmo sociale può aprire lo spazio per immaginare altri algoritmi, altre forme di autorganizzazione sociale basate su principi differenti.
Alcune esperienze di economia solidale, di gestione comune dei beni, di democrazia partecipativa, pur con tutti i loro limiti, possono essere viste come tentativi embrionali di riprogrammare l’algoritmo sociale, di sperimentare nuove regole di interazione e nuovi sistemi di incentivi. Certamente non sono sufficienti, ma rappresentano dei punti di partenza per una ricerca che è insieme teorica e pratica, scientifica e politica.
Non esistono sistemi sicuri e programmi senza bug
Nelle colonie di insetti, l’auto-organizzazione basata su semplici regole di interazione locale porta a comportamenti altamente cooperativi e altruistici. Ogni individuo, seguendo i propri istinti e rispondendo agli stimoli chimici dell’ambiente, contribuisce inconsapevolmente al benessere dell’intera colonia, anche a costo di sacrificare se stesso. Il risultato è un sistema estremamente resiliente ed efficiente nel suo complesso, in cui l’interesse del singolo è subordinato a quello del gruppo.
Al contrario, l’algoritmo del capitalismo sembra basarsi su regole di interazione che privilegiano l’interesse individuale e la competizione. Ogni agente, cercando di massimizzare il proprio profitto e il proprio vantaggio, contribuisce a creare un sistema complessivo in cui l’interesse collettivo è spesso sacrificato sull’altare della crescita e dell’accumulazione individuale. Il risultato è una corsa agli armamenti tra individui e imprese, che può portare a esiti subottimali per la società nel suo insieme, come disuguaglianze estreme, sfruttamento delle risorse, degrado ambientale.
Questa differenza riflette probabilmente il diverso contesto evolutivo in cui si sono sviluppate queste forme di intelligenza collettiva. Le colonie di insetti sono il prodotto di milioni di anni di evoluzione biologica, in cui la selezione naturale ha favorito i tratti che permettevano la sopravvivenza e la riproduzione del gruppo nel suo ambiente. L’algoritmo del capitalismo, invece, è il risultato di pochi secoli di evoluzione culturale e tecnologica, in cui a essere premiate sono state soprattutto le innovazioni che permettevano l’espansione e l’accumulazione del capitale.
Tuttavia, forse proprio questa contraddizione tra interesse individuale e collettivo può rappresentare un bug nell’algoritmo del capitalismo, una vulnerabilità che può essere sfruttata per immaginare alternative. Perché, a differenza delle colonie di insetti, gli esseri umani sono dotati di coscienza e di intenzionalità, e quindi hanno la possibilità di riflettere criticamente sulle regole che governano il loro vivere insieme e di cambiarle intenzionalmente.
In questo senso, forse la sfida è quella di hackerare l’algoritmo del capitalismo introducendo nel sistema nuove regole di interazione, nuovi codici culturali e valoriali che premino la cooperazione, la solidarietà, la cura reciproca. Di sperimentare forme di organizzazione economica e sociale che, pur riconoscendo l’autonomia e la creatività individuali, le mettano al servizio del bene comune.
Pertanto, se da una parte, l’analogia tra capitalismo e swarm intelligence ci offre una chiave di lettura potente per comprendere la complessità del sistema in cui viviamo, dall’altra può guidarci nell’individuarne i punti di vulnerabilità e le possibili linee di fuga.
Come ogni sistema auto-organizzante, anche il capitalismo non è un monolite perfetto e invincibile, ma un processo in continua evoluzione, attraversato da contraddizioni e da potenziali di cambiamento. Come ogni algoritmo, contiene dei bug, delle falle che possono essere sfruttate per immaginare e praticare alternative.
Alcuni di questi bug li abbiamo individuati nelle pagine precedenti.
La tendenza del capitalismo a erodere le basi sociali e ambientali della propria riproduzione, la sua incapacità di rispondere ai bisogni profondi di senso e di relazione degli esseri umani, la sua vulnerabilità rispetto a forme di intelligenza collettiva basate sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione.
Hackerare il capitalismo
Sfruttare questi bug non significa avere in tasca una soluzione pronta, un modello alternativo da applicare. Significa piuttosto avviare un processo di sperimentazione collettiva, di apprendimento dal basso, di costruzione di nuove forme di vita e di relazione sociale, di commonizzazione delle risorse primarie. Un processo aperto e plurale, che sappia valorizzare la diversità delle esperienze e dei saperi, ma anche farli convergere in un orizzonte comune di trasformazione.
Nel ragionare sui bug del capitalismo come sistema di swarm intelligence “difettoso”, emergono domande cruciali che dal mio punto di vista potrebbero guidare la ricerca di alternative più eque e sostenibili.
Quali? Eccone alcune:
- Trasformazione degli incentivi: è possibile mantenere l’adattabilità e la pervasività del capitalismo trasformando gli incentivi individuali in incentivi collettivi? Potremmo ripensare il capitalismo come un gioco di squadra in cui il successo individuale è intrinsecamente legato al benessere collettivo?
- Ridefinizione del valore: se il successo fosse ancora misurato dal denaro, ma il denaro stesso fosse ridefinito attraverso un nuovo accordo globale – una sorta di Bretton Woods sostenibile – potremmo creare un sistema in cui la ricchezza è direttamente collegata alla capacità delle comunità di prendersi cura di sé e del proprio territorio, nel rispetto degli altri? In questo scenario, un territorio diventerebbe più ricco quanto più è solidale, e più è ricco, più dovrebbe essere solidale.
- Bilanciamento commerciale globale: seguendo la proposta di Keynes, potremmo ripensare la bilancia commerciale dei paesi come un sistema di compensazione in cui gli incentivi di debitori e creditori convergono verso una posizione di pareggio? Questo potrebbe promuovere un commercio internazionale più equilibrato e cooperativo.
- Declassificazione delle merci fittizie: come suggerito da Karl Polanyi, potremmo smettere di trattare denaro, lavoro e risorse naturali come merci, iniziando invece a considerarle come beni comuni (commons)? Legando gli incentivi economici alla cura di questi commons, potremmo allineare gli interessi individuali con quelli collettivi?
- Tecnologia al servizio della pianificazione: potremmo sfruttare le moderne tecnologie, come i gemelli digitali e l’intelligenza artificiale, per creare un sistema ibrido di mercato e pianificazione? Questo potrebbe aiutarci a prevenire crisi, allocare risorse in modo più efficiente e raggiungere un equilibrio stabile tra stato e mercato, garantendo a tutti risorse sufficienti per vivere bene?
Queste domande ci invitano a immaginare un sistema economico che mantenga l’efficienza e l’adattabilità del capitalismo, ma ne corregga le tendenze distruttive. Ci sfidano a concepire un’economia che funzioni veramente come una swarm intelligence benefica, in cui l’ottimizzazione degli interessi individuali conduca naturalmente al benessere collettivo e alla sostenibilità ambientale.
La strada verso un tale sistema è sicuramente complessa e richiederà un ripensamento radicale delle nostre istituzioni economiche e sociali. Tuttavia, di fronte alle crescenti crisi globali – dal cambiamento climatico alle disuguaglianze estreme – questa trasformazione appare non solo desiderabile, ma necessaria.
Il compito che ci attende è quello di progettare nuovi algoritmi sociali che possano guidare il nostro sistema economico verso risultati più equi e sostenibili. Questo richiede un dialogo interdisciplinare tra economisti, sociologi, ecologi, tecnologi e molti altri, nonché un ampio coinvolgimento democratico per garantire che le soluzioni proposte riflettano veramente i valori e le aspirazioni delle comunità globali.
Pertanto, se il capitalismo è davvero un algoritmo sociale autoapprendente, allora sta a noi, collettivamente, riprogrammarlo. La sfida è enorme, ma le potenziali ricompense – un mondo più giusto, sostenibile e prospero per tutti – lo sono altrettanto.
In questo processo, il ruolo degli spazi e delle pratiche di alternativa non è quello di proporsi come modelli autosufficienti e separati, ma come avamposti di una nuova intelligenza collettiva in divenire. Luoghi in cui sperimentare forme di collaborazione e di condivisione che possano contagiare e ibridare anche altri contesti sociali. Laboratori in cui elaborare nuove visioni e nuove narrazioni capaci di rispondere ai bisogni e ai desideri profondi delle persone.
Certo, nessuna di queste esperienze è immune dai rischi di derive settarie o di cooptazione da parte del sistema. Ma se sapremo coltivarle con umiltà e con spirito critico, se sapremo connetterle in reti solidali e mutualmente apprendenti, forse potranno rappresentare i germi di un cambiamento più ampio, i nodi di una contronarrazione capace di hackerare l’algoritmo del capitalismo.
Non sarà un percorso lineare, non ci sono garanzie di successo.
Ma in un tempo di crisi e di incertezza come il nostro, l’unica certezza è che non possiamo permetterci di rinunciare a cercare alternative, a sperimentare nuove possibilità di vita e di relazione.
Perché, come ci ricorda una vecchia saggezza informatica, non esistono sistemi sicuri e programmi senza bug.
E forse, nelle pieghe dell’algoritmo capitalista, si nascondono già i codici di un nuovo inizio.