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Fine dell’economia

“Gli uomini pratici, che si credono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto.”

J.M. Keynes

Il capitalismo come narrativa performativa

La celebre sentenza di Keynes risuona oggi con urgenza rinnovata. Ma la schiavitù contemporanea è più sottile: non siamo prigionieri solo delle idee di economisti morti, ma di un’intera ontologia economica che ha trasformato le proprie finzioni costitutive in leggi naturali immutabili.

Il capitalismo, prima ancora che sistema economico, è stata una narrativa performativa di straordinaria potenza. Come ogni grande finzione che plasma il reale, ha creato il mondo che pretendeva di descrivere. L’homo economicus, creatura mitologica partorita dall’immaginazione illuminista, ha finito per incarnarsi nelle pratiche sociali, nelle istituzioni, nelle soggettività stesse degli individui moderni.

Questa finzione ha svolto una funzione storica innegabile: ha liberato energie produttive immense, dissolto vincoli feudali, creato spazi di libertà individuale prima impensabili. L’astrazione del valore di scambio, la riduzione della complessità sociale a calcolo economico, la trasformazione di ogni qualità in quantità – questi processi di semplificazione violenta hanno permesso coordinamenti su scala planetaria, innovazioni tecnologiche vertiginose, aumenti di produttività senza precedenti.

Ma ogni finzione costitutiva porta in sé i germi del proprio esaurimento. Quando la mappa pretende di sostituirsi al territorio, quando il modello si scambia per realtà, quando l’astrazione economica colonizza ogni sfera dell’esistenza – allora la finzione da liberatoria diventa prigione, da strumento euristico diventa dogma metafisico.

L’economia neoclassica ha compiuto un’operazione epistemologica audace quanto problematica: ha trasformato regolarità storicamente situate in leggi naturali eterne. Come i teologi medievali deducevano l’ordine sociale dall’ordine divino, gli economisti neoclassici hanno dedotto l’ordine economico da presunte leggi universali – domanda e offerta, utilità marginale, equilibrio generale – elevate a principi metafisici.

Questa fisica sociale mutuava dalla meccanica newtoniana non solo il formalismo matematico ma l’aspirazione a una conoscenza sub specie aeternitatis. L’equilibrio economico diventava l’analogo dell’equilibrio termodinamico, la mano invisibile l’equivalente economico della gravitazione universale. Ma mentre la fisica ha attraversato rivoluzioni successive – dalla relatività alla quantistica alla complessità – l’economia mainstream è rimasta ancorata a un newtonianesimo sociale sempre più anacronistico.

La pretesa trascendenza delle leggi economiche si scontra con l’evidenza della loro storicità. Quelle che vengono presentate come costanti universali – la propensione al risparmio, l’avversione al rischio, la massimizzazione dell’utilità – sono costrutti culturali specifici, cristallizzazioni di pratiche storicamente determinate. L’homo economicus, ammesso che sia mai esistito, non è l’essenza eterna dell’umano ma il prodotto contingente di una particolare configurazione storico-sociale o peggio ancora il modello a cui tendere.

Il peccato originale dell’economia neoclassica risiede nel suo atomismo metodologico – la pretesa di comprendere i fenomeni economici a partire da individui isolati che poi entrano in relazione. Come se le relazioni fossero accidentali rispetto a soggetti già costituiti, come se l’individuazione precedesse l’interazione, come se il sociale fosse la somma aritmetica di monadi preformate.

Questa cecità relazionale ha conseguenze devastanti. I modelli di equilibrio generale assumono agenti rappresentativi identici, cancellando precisamente quella diversità e quelle asimmetrie che generano la dinamica economica reale. Le funzioni di utilità individuali vengono trattate come dati esogeni, ignorando che le preferenze si formano e trasformano attraverso l’interazione sociale. I mercati vengono concepiti come spazi neutri di incontro tra domanda e offerta, obliterando le relazioni di potere che li costituiscono.

L’incapacità di pensare la priorità ontologica della relazione condanna l’economia neoclassica a una comprensione mutilata della realtà economica. Come la fisica quantistica ha dovuto riconoscere che le particelle non esistono indipendentemente dalle loro interazioni, così una scienza economica all’altezza del presente deve partire dal riconoscimento che gli agenti economici sono sempre già immersi in reti di relazioni che li costituiscono.

 

Dall’equilibrio alla complessità

L’ossessione per l’equilibrio rivela un’altra finzione costitutiva del pensiero economico dominante: la negazione del tempo reale, irreversibile, creatore. I modelli di equilibrio generale descrivono economie senza storia, dove il futuro è già contenuto nel presente, dove ogni perturbazione viene riassorbita da forze riequilibratrici automatiche.

Ma l’equilibrio economico è una chimera, un’astrazione matematica che non trova riscontro in nessuna economia reale. Come ci insegna Prigogine, i sistemi complessi non tendono all’equilibrio ma si mantengono in stati di non-equilibrio dinamico, lontano dall’equilibrio termodinamico. L’economia reale è attraversata da processi irreversibili, biforcazioni, emergenze – fenomeni che la matematica dell’equilibrio non può catturare.

Il principio di Landauer ci ricorda che ogni trasformazione informativa – e quindi ogni decisione economica – ha un costo entropico irreducibile. Non esistono processi economici reversibili, non esistono ritorni all’equilibrio dopo le perturbazioni. Ogni crisi lascia cicatrici permanenti nel tessuto sociale, ogni innovazione riconfigura irreversibilmente lo spazio delle possibilità, ogni scelta chiude alcuni futuri mentre ne apre altri.

Il modello dell’homo economicus presuppone una razionalità monologica – individui isolati che calcolano utilità in solitudine metafisica. Ma la razionalità economica reale è sempre dialogica, emerge dall’interazione, si forma attraverso processi di apprendimento sociale, si trasforma attraverso la comunicazione.

L’intelligenza economica non risiede nelle teste individuali ma nelle reti di relazioni. Come il cervello genera coscienza non dalla somma dei neuroni ma dai pattern delle loro connessioni, così l’economia genera valore non dalla somma delle razionalità individuali ma dalle configurazioni relazionali che permettono coordinamento, innovazione, adattamento.

C’è bisogno di cambiare punto di vista, di muoverci nella direzione di quella che potremmo definire come network economics. Un modello di descrizione e di studio della realtà economica che non la astrae dalla sua natura enbedded nella vita sociale e, cosa altrettanto importante, riconosce questa intelligenza distribuita come principio costitutivo. Non si tratta di aggregare preferenze individuali preformate, ma di comprendere come le preferenze emergono e si trasformano attraverso l’interazione. Non si tratta di ottimizzare scelte individuali isolate, ma di facilitare l’emergenza di intelligenza collettiva attraverso architetture relazionali appropriate.

Liberarsi dalla schiavitù degli economisti defunti non significa gettare alle ortiche l’intero patrimonio del pensiero economico, tutt’altro: significa piuttosto riconoscere la storicità e parzialità di ogni teoria, la necessità di un pensiero economico capace di evolvere con il suo oggetto, di trasformarsi per comprendere trasformazioni sempre più rapide e radicali.

La network economics non è un tentativo di fondare l’ennesima scuola che si aggiunge alle precedenti, ma un cambio di paradigma che porta in nuce la capacità di mutare profondamente i fini e l’oggetto stesso della scienza economica. Non più individui che scambiano ma reti che co-evolvono, non più equilibri da raggiungere ma processi da navigare, non più leggi eterne ma pattern emergenti da comprendere e gestire.

Questo passaggio richiede un’umiltà epistemologica che il pensiero economico mainstream ha perso del tutto presentandosi come un nuovo culto, con il proprio credo dogmatico e la propria liturgia sacra e inviolabile. Bisogna he la scienza economica esca dal riduzionismo Newtoniano e riconosca finalmente che l’economia non è fisica sociale ma ecologia umana, che i suoi “oggetti” sono soggetti riflessivi che modificano il proprio comportamento in base alle teorie che li descrivono, che ogni modello economico è simultaneamente descrizione e prescrizione, mappa e territorio.

La critica alle finzioni neoclassiche non nasce da un gusto iconoclasta ma dalla consapevolezza che queste finzioni sono diventate gabbie cognitive che ci impediscono di immaginare e costruire economie più giuste, sostenibili, vitali. Come diceva lo stesso Keynes, “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nel liberarsi da quelle vecchie”.

 

L’inganno delle esternalità

La cecità costitutiva del pensiero economico dominante si manifesta con particolare evidenza nel concetto stesso di “esternalità”. Questa categoria, apparentemente neutra e tecnica, rivela in realtà un atto di autolesionismo miope che ha conseguenze devastanti. Definire come “esterni” al sistema economico gli effetti ambientali, sociali e culturali delle attività produttive non è solo un errore metodologico: è il sintomo di una patologia cognitiva che impedisce di vedere ciò che dovrebbe essere ovvio.

Stiamo imparando a nostre spese che quelle che la scienza economica relega pudicamente a piè di pagina come “esternalità” sono in realtà internalità costitutive, dimensioni inscindibili del processo economico stesso. Il collasso climatico non è un semplice effetto collaterale del nostro modello di produzione e di consumo ma il manifestarsi di qualità strutturali, della sua insostenibilità intrinseca. L’erosione del tessuto sociale non è un costo accessorio della competizione di mercato ma la distruzione del capitale relazionale su cui ogni economia si fonda. La perdita di biodiversità – naturale e culturale – non è un danno periferico ma l’impoverimento di quella diversità generativa da cui scaturiscono innovazione, antifragilità e quindi possibilità evolutive.

L’economia neoclassica, con la sua ossessione per i confini e le demarcazioni, traccia una linea immaginaria tra ciò che è “dentro” il calcolo economico e ciò che ne resta “fuori”. Ma questa linea è una finzione tanto arbitraria quanto pericolosa. In una prospettiva sistemica e relazionale – quella che la network economics ci invita ad abbracciare – non esistono esternalità, solo connessioni ancora non riconosciute e da indagare, interdipendenze negate a torto o per interesse, feedback loop ignorati e sacrificati nell’imperativo di una apparente efficienza di breve termine.

Questa miopia ha una spiegazione storica: l’economia si è costituita come disciplina autonoma proprio attraverso un processo di progressiva astrazione dalla complessità del reale, di riduzione della multidimensionalità dell’esistenza umana alla sola dimensione del calcolo monetario. Ma ciò che poteva apparire come necessaria semplificazione metodologica si è trasformato in una mutilazione ontologica. L’economia ha finito per credere che il suo modello semplificato fosse la realtà, che le dimensioni escluse dal calcolo fossero davvero “esterne” e quindi sacrificabili.

Il principio termodinamico ci insegna che non esistono sistemi isolati – ogni sistema è aperto, scambia energia e informazione con l’ambiente. Eppure l’economia continua a fingere di poter operare come sistema chiuso, scaricando entropia nell’ambiente e nella società come se esistesse un “altrove” infinito dove depositare i propri rifiuti materiali e simbolici. Ma non esiste alcun altrove: viviamo in un pianeta finito, in società interconnesse, in culture che co-evolvono. Ogni esternalità negata ritorna come crisi sistemica, ogni costo scaricato su altri si ripresenta moltiplicato come collasso delle condizioni di possibilità.

 

Verso un’economia dei viventi: l’ontologia delle relazioni.

La transizione verso una network economics implica quindi un rovesciamento radicale: riconoscere che l’attenzione per l’ambiente e per le persone, la cura della biodiversità naturale e culturale, la salvaguardia della complessità sistemica non sono vincoli esterni all’efficienza economica ma condizioni intrinseche della sua stessa possibilità. Non accessori da aggiungere a posteriori ma elementi costitutivi da integrare ab origine nel disegno delle istituzioni e delle pratiche economiche.

Solo quando l’economia smetterà di mutilarsi escludendo dal proprio orizzonte ciò che la rende possibile, solo quando riconoscerà che ogni esternalità è un’internalità rimossa, solo allora potrà cessare questo autolesionismo miope e aprirsi a una comprensione sistemica della propria natura e del proprio ruolo. La fine dell’economia delle esternalità è condizione necessaria per scoprire il fine di un’economia capace di includere nel proprio calcolo la totalità vivente di cui è parte.

La network economics offre non solo nuovi strumenti analitici ma anche la strada verso un nuovo immaginario economico. Un’economia dove il valore emerge dalle relazioni invece che dalle cose, dove la ricchezza si moltiplica attraverso la condivisione invece che attraverso l’accumulo, dove l’efficienza sistemica coincide con la giustizia distributiva invece di contrapporvisi.

Non si tratta di sostituire un dogma con un altro, ma di aprire spazi di possibilità prima preclusi. Di riconoscere che l’economia, prima di essere scienza, è un sistema di co-creazione delle condizioni materiali necessarie affinché si possa costruire un futuri in cui vivere bene insieme, sapienza pratica della convivenza, immaginazione istituzionale al servizio del fiorire umano e più-che-umano.

La transizione che ci attende non è solo tecnica ma culturale, non solo economica ma esistenziale. Richiede di reimparare a vedere l’economia non come destino ma come creazione collettiva, non come vincolo naturale ma come spazio di libertà e responsabilità condivise. In fondo, liberarsi dagli economisti morti significa riscoprire che l’economia è dei viventi, e che i viventi hanno sempre il potere di reinventare le forme della propria convivenza. La fine dell’economia per come la conosciamo, in fondo, non è altro che riconoscere finalmente il suo vero fine.