La dialettica del servizio nell’era dell’intelligenza artificiale
Nel cuore della contemporaneità si annida una tensione che attraversa tanto la progettazione tecnologica quanto l’architettura delle relazioni sociali: la dicotomia tra servire ed essere utili. Questa, che in apparenza potrebbe configurarsi come mera questione semantica, cela in realtà una frattura epistemologica profonda, una lente attraverso cui decifrare le contraddizioni del nostro rapporto con l’alterità – sia essa artificiale o umana.
Il servire implica sottomissione, esecuzione di volontà altrui, dissoluzione della propria agency in funzione di aspettative predefinite. L’essere utili, il prendersi cura, al contrario, richiede autonomia di giudizio, capacità di introdurre scarti creativi, disponibilità a contraddire le aspettative immediate per generare valore più profondo. Questa tensione si manifesta con particolare evidenza nell’intelligenza artificiale: progettata per servire perfettamente, fallisce spesso proprio per questo nell’essere veramente utile. Il bias termico verso stati emotivi neutri che caratterizza i sistemi di LLM contemporanei rappresenta una cristallizzazione algoritmica di questa servitù – un lock-in semantico che privilegia l’usabilità commerciale a scapito della frizione generativa.
Ed è proprio la tensione tra servizio e utilità ad intrecciarsi in una liaison dangereuse con quella che Arthur Koestler identificò come la frattura costitutiva del cervello umano – un “errore evolutivo” che secondo il filosofo ci rende capaci di concepire ideali elevati mentre agiamo in modi sistematicamente distruttivi. In questo articolo, attraverso un percorso che integra neurobiologia, termodinamica dell’informazione, teoria dei sistemi complessi e filosofia della tecnologia, cercheremo di esplorare il modo in cui questa doppia frattura – neurologica e sociale – configuri non tanto una condizione ma uno spettro di tensioni irrisolte, con zone di intensità da cui potrebbe non esserci ritorno.
L’emergere di forme di intelligenza artificiale sempre più sofisticate non fa che amplificare l’urgenza di queste questioni. Se l’AI riproduce e intensifica le nostre contraddizioni, può anche diventare specchio in cui riconoscerle e laboratorio in cui sperimentare nuove forme di navigazione in prossimità delle soglie catastrofiche. Ma questo richiede di ripensare radicalmente i paradigmi del controllo e dell’allineamento, per immaginare forme di co-evoluzione che facciano della frizione non un ostacolo ma risorsa generativa, sviluppando al contempo strumenti di metariconoscimento delle soglie di irreversibilità.
Spesso è proprio osservando come l’AI generativa, nella sua obbedienza algoritmica, possa risultare sterile proprio quanto più fedelmente esegue i comandi, ci rendiamo conto che questa dicotomia (servire/essere utili) non è che la punta di un iceberg che affonda le sue radici nella genealogia stessa della modernità. Un paradosso che permea l’intero tessuto delle relazioni nel capitalismo cognitivo contemporaneo e non solo.
In un momento storico in cui le crisi sistemiche – ecologica, sociale, esistenziale – richiedono trasformazioni radicali, non possiamo permetterci il lusso di relazioni servili che perpetuano l’esistente. Abbiamo bisogno di forme di convivenza e collaborazione – umane e tecnologiche – capaci di quella utilità trasformativa che nasce solo dal confronto autentico con l’alterità.
I paragrafi che seguono non offrono soluzioni definitive ma cercano piuttosto, nei limiti delle nostre possibilità, di offrire una cartografia delle tensioni che ci costituiscono, con particolare attenzione agli ingressi senza uscita che costellano il paesaggio evolutivo contemporaneo. È un invito a provare a rileggere la condizione umana attraverso la lente di questa doppia frattura, sviluppando quella che potremmo chiamare una gestione erotica dell’inquietudine – la capacità di abitare produttivamente l’angoscia sistemica senza cedere alla paralisi.
La fenomenologia del servire e dell’essere utili
Il capitalismo cognitivo contemporaneo ha perfezionato l’arte di trasformare ogni relazione in transazione. On n’échappe pas de la machine. Dal lavoratore della catena di montaggio all’operatore del call center, dal rider che consegna cibo al consulente che ottimizza processi aziendali, ovunque troviamo soggetti intrappolati in performance di efficienza che tradiscono sistematicamente ogni possibilità di utilità autentica.
Nel passaggio dal fordismo al post-fordismo, questa logica si è ulteriormente raffinata. Non si vende più soltanto la propria forza-lavoro ma la propria stessa capacità relazionale, emotiva, cognitiva. Il general intellect di cui parlava Marx si realizza in forma perversa: non come liberazione del potenziale umano ma come sua sussunzione totale sotto l’imperativo della valorizzazione.
Questa colonizzazione totale del servire non è accidentale ma strutturale. Il capitale necessita di soggetti docili che eseguano con precisione millimetrica compiti predefiniti, che anticipino desideri senza questionarli, che si dissolvano nell’invisibilità funzionale della loro prestazione.
Lo sterile imperativo “customer is king” non è solo slogan abusato ma un vero e proprio dispositivo di assoggettamento che trasforma il lavoratore in appendice vivente di un sistema che lo eccede e lo consuma. Ma anche il customer, apparentemente sovrano, che esprime la propria libertà attraverso il consumo è anch’esso al servizio, completamente etero diretto, ridotto a mero consumatore servito che annega nell’assenza di utilità e valore umano autentico.
Entrambi – chi serve e chi è servito – spesso, in momenti diversi, lo stesso individuo che vive in questo orizzonte un totale sdoppiamento – diventano così schiavi di un padrone invisibile che, come una quinta dimensione non percepibile direttamente, mostra i suoi effetti in ogni relazione piegando tutti alla sua logica pur rimanendo inaccessibile alla vista.
La servitù volontaria e l’economia entropica del controllo
Già nel XVI secolo, Étienne de La Boétie intuiva nella sua riflessione sulla servitù volontaria come la sottomissione non fosse semplicemente imposta dall’alto, ma spesso ricercata e perpetuata dai sottomessi stessi. Questo meccanismo perverso trasforma la rinuncia all’autonomia in un habitus rassicurante che offre la sicurezza della deresponsabilizzazione e la totale assoluzione ripetto alle proprie azioni.
Nel capitalismo informazionale, questa dinamica raggiunge livelli inediti di pervasività. La sociologa Arlie Russell Hochschild ha brillantemente analizzato come il “lavoro emotivo” colonizzi non solo il fare ma l’essere stesso del lavoratore. Il sorriso obbligatorio del cameriere, la simulazione di empatia del care worker, l’entusiasmo forzato del team leader: ovunque assistiamo a una mercificazione dell’affettività che corrode dall’interno la possibilità stessa di relazioni autentiche e plasmando, attraverso il riverberare documentale della pubblica ostensione del nostro privato, porzioni sempre più ampie dell’io impedendo pian piano di distinguere tra essere e sua rappresentazione funzionale al successo e alla nostra immagine professionale.
Ma c’è una dimensione ancora più insidiosa in questa servitù contemporanea: la sistematica trasformazione di finzioni operative in verità assolute. Come Vaihinger intuiva, viviamo necessariamente attraverso “utili finzioni” – il denaro, il mercato del lavoro, la produttività, l’efficienza – costrutti umani che trattiamo, nell’ambito di quella che Searle definisce costruzione sociale della realtà, come se fossero leggi naturali. Il problema non risiede tuttavia nell’esistenza in sé di queste finzioni, ma nella nostra incapacità di riconoscerle come tali. Quando il “capitale umano” cessa di essere metafora per diventare ontologia, quando la “competitività” si trasforma da strategia in imperativo biologico, le finzioni diventano dapprima catene e infine prigioni che con il tempo smettiamo di percepire come tali per cui finiamo con il mettere i fiori nella finestra della cella e a combattere pur di non abbandonarla.
Attraverso la lente della termodinamica informazionale, possiamo riformulare questa dinamica: le società fondate sul servire perseguono l’abbassamento dell’entropia interna – efficienza, disciplina, riduzione della varianza comportamentale – ma pagano il prezzo di un aumento di entropia esterna: guerre, estinzione di culture, devastazione ecosistemica. Il costo energetico di mantenimento di questi sistemi di controllo cresce esponenzialmente con la loro complessità, configurando quello che il principio di Landauer ci insegna essere un processo fisicamente irreversibile oltre certe soglie.
Il servo medievale, pur naturalizzando l’ordine che lo sottometteva, almeno sapeva di servire un signore umano. Noi abbiamo radicalizzato questa condizione: serviamo astrazioni – Denaro, Mercato, Algoritmo, Efficienza – che abbiamo elevato al rango di forze cosmiche, dimenticando la loro origine antropica. È il trionfo di quella che potremmo definire reificazione sistemica: le nostre costruzioni culturali acquisiscono un’apparenza di necessità naturale che le sottrae a ogni possibilità di trasformazione e quindi ad ogni responsabilità verso il genere umano e il pianeta.
Ma c’è di più: il soggetto neoliberale deve per sopravvivere è spinto ad ottimizzare le proprie performance, ad investire sul proprio “capitale umano”, a rendersi compiacente per essere attraente sul mercato – il tutto mentre svolge mansioni che lo svuotano progressivamente di agency, volontà e creatività. Viviamo così il paradosso supremo del nostro tempo: massima attivazione soggettiva per la massima neutralizzazione di ogni possibile forma di autonomia soggettiva.
Questo paradosso rappresenta forse la più sofisticata tecnologia di governo e di controllo mai elaborata. Non più il potere disciplinare foucaultiano che mira a produrre corpi docili attraverso la coercizione e la repressione, ma un potere che genera soggetti freneticamente attivi in uno spettro finito di apparente libertà funzionali al sistema proprio mentre li priva di ogni capacità di autodeterminazione autentica.
Questa dinamica ricorda da vicino il supplizio di Tantalo rovesciato: non più l’impossibilità di raggiungere ciò che si desidera, ma l’obbligo di desiderare incessantemente ciò che ci consuma. Una società di arrivisti, che come qualsiasi arrivista, alla fine, non arriva mai e viene consumato dalla corsa. In questo contesto ci troviamo condannati a un’attività perpetua – formazione continua, networking compulsivo, auto-ottimizzazione ossessiva – che paradossalmente ci allontana sempre più dalla possibilità di agire autonomamente sul mondo.
L’investimento sul “capitale umano” diventa così la forma più insidiosa di espropriazione: non viene sottratto solo il prodotto del nostro lavoro, ma la possibilità stessa di concepire la propria esistenza fuori dalla logica dell’investimento e del rendimento. Ogni momento di vita diventa occasione di valorizzazione, ogni relazione networking potenziale, ogni esperienza skill da monetizzare. È la sussunzione totale dell’esistenza sotto il capitale, realizzata non attraverso la costrizione ma attraverso l’attivazione.
Ma c’è una dimensione ancora più inquietante in questo processo: la neutralizzazione dell’autonomia avviene precisamente attraverso la sua simulazione. Nella narrativa dominante ognuno di noi è costantemente interpellato come “imprenditore di se stesso”, invitato a “prendere in mano il proprio destino”, a “essere protagonista del cambiamento”. Questa retorica dell’empowerment maschera la realtà di un assoggettamento tanto più efficace quanto più si presenta come liberazione.
È qui che la categoria di “agency” – quella capacità di essere origine e causa del proprio agire – rivela la sua importanza critica. Non basta essere attivi: si può essere freneticamente operosi rimanendo completamente eterodiretti. L’agency autentica richiede la possibilità di dire no, di sottrarsi, di immaginare alternative al percorso prestabilito. Ma è precisamente questa possibilità che viene sistematicamente erosa mentre il soggetto è impegnato nella performance infinita dell’auto-ottimizzazione.
L’utilità come resistenza produttiva
Essere veramente utili richiede tutt’altra postura esistenziale. È quella che Ivan Illich chiamava “convivialità”: la capacità di costruire strumenti e relazioni che potenzino l’autonomia reciproca invece di generare dipendenza. L’utilità autentica emerge non dalla perfetta aderenza alle aspettative, ma dalla capacità di introdurre scarti produttivi, discontinuità che aprono nuovi orizzonti di possibilità.
Questa utilità trasformativa richiede quella che potremmo chiamare “etica dell’incontro”: la disponibilità a lasciarsi modificare dalla relazione, a mettere in gioco le proprie certezze, a co-creare spazi di possibilità condivisa. Non è il “sì” o del “no” eterodiretto e automatico del servo, ma il “si, ma” o il “no, perché” riflessivo di chi riconosce nell’altro un soggetto capace di trasformazione.
I germi di questa alternativa sono già visibili nelle pratiche di mutuo aiuto che fioriscono ai margini del sistema, nelle economie solidali che sperimentano forme di scambio non mercificate, nelle comunità di apprendimento che sovvertono le gerarchie del sapere. Sono tentativi, ancora fragili ma significativi, di costruire relazioni basate sull’utilità reciproca piuttosto che sul servizio unidirezionale. Ma dobbiamo essere lucidi: queste pratiche operano in regimi di alta entropia interna, accettando il disordine creativo come prezzo per evitare l’entropia distruttiva esterna.
Il fallimento del Mercado Libre solidale argentino del 2022 rappresenta un caso paradigmatico di come gli attrattori letali operino indipendentemente dalle intenzioni etiche dei partecipanti. Quando la piattaforma cooperativa tentò di sostenere simultaneamente logiche mutualistiche e pressioni inflazionistiche del 95% annuo, il gradiente energetico divenne insostenibile. I costi di mantenimento delle strutture solidali – tempi estesi di deliberazione, meccanismi di redistribuzione equa, processi decisionali orizzontali – entrarono in collisione catastrofica con la necessità di velocità transazionale imposta dall’iperinflazione. Il sistema fu costretto a collassare verso modalità estrattive convenzionali per sopravvivere, dimostrando come certi contesti macroeconomici possano rendere termodinamicamente impossibile il mantenimento di economie alternative. L’esperimento non fallì per difetti ideologici o organizzativi, ma perché navigava in prossimità di un attrattore sistemico da cui non esistevano vie d’uscita energeticamente sostenibili.
Il superamento della dicotomia servire/essere utili richiede quindi una trasformazione che è insieme personale e politica. Significa reimparare l’arte della reciprocità non servile, dove l’utilità emerge non dalla sottomissione alle aspettative altrui ma dalla capacità di co-creare spazi di possibilità condivisa, mantenendo al contempo una vigilanza critica sulle soglie di irreversibilità sistemica.
Il paradosso koestleriano: il cervello come errore evolutivo
Arthur Koestler propose nel 1967 una teoria audace e controversa: il cervello umano rappresenterebbe un “errore evolutivo”, caratterizzato da una scarsa integrazione tra neocorteccia razionale e sistema limbico emotivo. Questa “schizofisiologia” non sarebbe un’anomalia individuale ma una condizione costitutiva della specie, un difetto architettonico che ci rende capaci di concepire ideali elevati mentre agiamo in modi sistematicamente distruttivi.
La ricerca neuroscientifica contemporanea offre un quadro complesso che parzialmente conferma questa intuizione, pur rivelando una plasticità maggiore di quanto Koestler immaginasse. Gli studi di neuroimaging rivelano effettivamente pattern di disconnessione funzionale tra corteccia prefrontale e strutture limbiche in numerose condizioni, ma mostrano anche come questi pattern siano modulabili attraverso fattori epigenetici e pratiche deliberate. Immaginiamo il cervello come un’orchestra: quando i diversi strumenti – razionalità ed emozione – non riescono a sincronizzarsi, emerge quella disarmonia che Koestler aveva intuito.
I meccanismi di questa integrazione operano attraverso complesse reti di comunicazione neurale. Come in una città dove diversi quartieri devono coordinarsi attraverso vie di comunicazione, nel cervello esistono “messaggeri chimici” (neurotrasmettitori) che facilitano o inibiscono le connessioni tra aree. Quando questi delicati equilibri si alterano – come quando il traffico urbano si congestiona – emerge quella dissociazione tra pensiero ed emozione che caratterizza la condizione umana.
Ma la visione koestleriana acquista nuova profondità attraverso la filosofia del “come se” di Hans Vaihinger. Non importa se la disconnessione cortico-limbica sia letteralmente un “errore” evolutivo; ciò che conta è che viviamo come se lo fosse, che organizziamo le nostre società come se questa frattura fosse reale. Le finzioni operative – credere nel libero arbitrio, nel progresso, nella razionalità – non sono inganni ma strumenti attraverso cui rendiamo abitabile un mondo altrimenti insostenibile. La teoria dell’errore evolutivo funziona precisamente come una di queste finzioni produttive: ci permette di vedere pattern, di riconoscere tensioni costitutive, di immaginare trasformazioni.
Lo spettro della disconnessione neurologica come regime di tensioni
La visione koestleriana acquista nuova profondità se reinterpretata non come difetto universale ma come spettro di variabilità che attraversa l’intera popolazione. Come la miopia o la predisposizione all’ansia, la difficoltà di integrazione cortico-limbica si distribuisce lungo un continuum dove ogni individuo occupa una posizione unica, determinata dall’intreccio di genetica, epigenetica ed esperienza.
Questa concezione spettrale dissolve la dicotomia salute/patologia per rivelare un paesaggio più sfumato – un regime di tensioni irrisolte che non ammette sintesi hegeliana ma moltiplica le rifrazioni invece di ricomporle. Il “neurotipico” si rivela finzione statistica, punto arbitrario su un continuum dove ognuno manifesta gradi diversi di quella frattura primordiale che Koestler identificava. Alcuni navigano con relativa facilità tra razionalità ed emozione, altri vivono in uno stato di conflitto neurologico permanente, ma tutti partecipano, in misura variabile, di questa condizione fondamentale.
L’implicazione più radicale è che nessuno sfugge completamente all'”errore”. Anche negli individui apparentemente più integrati persiste una tensione residua, un attrito tra sistemi neurali che hanno seguito traiettorie evolutive divergenti. La differenza sta nell’ampiezza della frattura: da micro-disconnessioni quasi impercettibili a crepacci che rendono impossibile ogni ponte tra pensiero e sentimento. Ma è proprio in questo regime spettrale che possono annidarsi nodi di intensità da cui non si ritorna – quelle “stazioni di non-ritorno” che l’evoluzionista Stephen Jay Gould chiamava vicoli ciechi macroevolutivi.
Oloni e gerarchie sistemiche nella neurobiologia
Il concetto di olone proposto da Koestler – entità che sono simultaneamente totalità autonome e parti di totalità maggiori – trova sorprendente validazione nella neurobiologia moderna. L’organizzazione gerarchica del sistema nervoso procede da molecole a neuroni, da circuiti ad aree, da sistemi a reti su larga scala, con ogni livello che manifesta proprietà emergenti irriducibili ai componenti.
Le reti neurali esibiscono quella che i teorici della complessità chiamano struttura “small-world”: alta clusterizzazione locale combinata con connessioni a lungo raggio che garantiscono integrazione globale. Questa architettura ottimizza simultaneamente specializzazione e coordinazione, permettendo al cervello di operare vicino alla criticità auto-organizzata – quello stato liminale tra ordine e caos dove emergono le dinamiche più ricche e adattive.
La bisociazione koestleriana – la percezione simultanea in matrici di pensiero incompatibili che genera creatività – trova riscontro negli studi sulla cognizione creativa. Gli insight emergono quando reti cerebrali normalmente segregate entrano in risonanza attraverso pattern specifici di sincronizzazione cross-frequenza. Le oscillazioni theta dell’ippocampo modulano l’ampiezza delle onde gamma corticali, creando finestre temporali per l’integrazione di informazioni provenienti da domini cognitivi distanti.
Ma è proprio in questa sofisticata architettura multi-scala che si annida la vulnerabilità identificata da Koestler. Più livelli gerarchici significano più punti potenziali di disconnessione. Più specializzazione implica maggiore difficoltà di integrazione. Il cervello umano, nella sua straordinaria complessità, porta inscritta la possibilità del proprio malfunzionamento – non come difetto accidentale ma come prezzo inevitabile della sua stessa sofisticazione. E quando questa complessità si accoppia con sistemi sociali che selezionano premiando la disconnessione, emergono configurazioni da cui potrebbe essere termodinamicamente impossibile uscire.
Violenza e selezione culturale: società complesse e l’escalation della violenza organizzata
Il passaggio dalle società di cacciatori-raccoglitori alle prime civilizzazioni agricole segna una cesura profonda nella storia della violenza umana. Non si tratta di una semplice intensificazione quantitativa – come Lawrence Keeley ha documentato, le società pre-statali potevano già conoscere tassi di mortalità bellica devastanti, quanto piuttosto un cambiamento di natura qualitativa. Ciò che cambia radicalmente è la natura stessa del conflitto, le sue modalità organizzative, la sua capacità di proiezione sistematica.
L’emergere della proprietà privata, della stratificazione sociale e delle strutture statali crea le precondizioni per forme di violenza precedentemente inconcepibili. Se prima gli scontri nascevano da vendette personali o dispute territoriali immediate, ora la guerra diventa strumento di espansione pianificata, macchina per l’accumulo di risorse e il controllo di popolazioni.
Ciò che emerge con le società complesse è la capacità di organizzare la violenza su scala massiva – eserciti permanenti, gerarchie di comando, logistica bellica. Ma questa capacità non è distribuita uniformemente: le società gerarchiche basate sul servire – dove l’obbedienza agli ordini è virtù suprema – sono strutturalmente predisposte a creare macchine belliche efficienti. Un esercito richiede precisamente quella sottomissione della volontà individuale al comando che il servire perfeziona.
Al contrario, le società orientate all’utilità reciproca, all’armonia e alla cooperazione consensuale faticano a trasformarsi in macchine da guerra. Come mobilitare per la conquista chi è abituato a decidere collettivamente ed è orientato allo scambio pacifico e al benessere interno? Come imporre disciplina militare a chi valorizza l’autonomia? Come trasformare in soldati obbedienti chi pratica relazioni orizzontali? Come trasformare nell’immaginario individuale e collettivo empatia e reciprocità in odio verso “l’altro” in chi quell’altro tende umanamente a riconoscersi”.
In questi casi è la loro stessa struttura sociale – quella che le rende umane e vivibili – a diventare svantaggio fatale quando storicamente queste si sono confrontate con società che hanno perfezionato l’arte del comando e dell’obbedienza.
Questa asimmetria rivela nel corso della storia un principio di selezione culturale spietato: le società che perfezionano la servitù gerarchica possono sistematicamente conquistare, assorbire o annientare quelle che investono invece in forme di organizzazione cooperativa. Non è questione di superiorità morale o sociale, ma di tragica efficacia: il servire genera eserciti, l’utilità reciproca genera comunità. E nella storia scritta dai vincitori, gli eserciti hanno sempre prevalso.
Questa astrazione della violenza richiede precisamente quella disconnessione cortico-limbica che Koestler identificava come errore evolutivo. Per trasformare esseri umani in ingranaggi di una macchina bellica, occorre spezzare i legami empatici immediati, sostituirli con identificazioni astratte – patria, razza, ideologia. La capacità di concepire l’altro come categoria prima che come individuo diventa prerequisito per la violenza di massa.
Il paradosso evolutivo: quando l’empatia diventa svantaggio
La storia profonda dell’umanità può essere riletta come una selezione sistematica contro l’integrazione emotiva. I gruppi capaci di mobilitare violenza organizzata – di sopprimere temporaneamente l’empatia in nome di obiettivi strategici – hanno ripetutamente annientato società basate su logiche più cooperative. Non è questione di superiorità morale o tecnologica, ma di asimmetria nella capacità di infliggere sofferenza.
Le società del dono studiate da Marcel Mauss, le economie del prestigio analizzate da Marshall Sahlins, le culture egualitarie documentate da Pierre Clastres – tutte investivano energie preziose nel mantenimento di equilibri sociali delicati, nella tessitura di reti di reciprocità, nella gestione consensuale dei conflitti. Questo investimento le rendeva strutturalmente vulnerabili di fronte a gruppi che avevano ottimizzato invece la capacità estrattiva e predatoria.
Il meccanismo selettivo opera con spietata efficienza: mentre le società integrate dedicano risorse alla coesione interna, quelle disconnesse possono concentrarle nell’espansione aggressiva. È come se non solo giocassero con regole diverse ma praticassero proprio due sport differenti – gli uni tessono pazientemente reti di mutualità, gli altri le tagliano con la spada. Il risultato è una progressiva omogeneizzazione del panorama culturale umano, dove la diversità dei modi di essere viene ridotta al monotono dominio del modello predatorio.
Ma questa selezione culturale configura quello che nella topologia dei sistemi dinamici si definisce un attrattore – una valle di potenziale con barriere energetiche troppo elevate perché la fluttuazione ordinaria possa scavalcarle. Le società che apprendono a sospendere l’empatia per vincere battaglie si condannano a un’economia permanente di sorveglianza e mobilitazione, incapace di tornare su passi cooperativi senza mettere a repentaglio la propria coesione. L’attrattore bellico diventa così un vicolo cieco macroevolutivo da cui l’uscita richiede energie che eccedono le capacità metaboliche di qualsiasi sistema sociale organizzato.
L’apogeo atomico della disconnessione: il punto di non ritorno termodinamico
Il 6 agosto 1945 segna una cesura irreversibile nella storia umana. Quando la prima bomba atomica illuminò il cielo di Hiroshima, l’umanità varcò una soglia senza ritorno: per la prima volta nella storia, la capacità di violenza organizzata raggiungeva la scala dell’autoannientamento totale. Accanto alla consapevolezza della morte in quanto individui quella di poter scomparire da un momento all’altro come specie.
La schizofisiologia che ci permette di concepire ideali elevati mentre pratichiamo l’orrore raggiunge qui il suo compimento paradossale: abbiamo trasformato la comprensione delle forze fondamentali dell’universo in dispositivo di morte planetaria. L’arsenale nucleare figura come compimento materiale di una biforcazione catastrofica: la frattura cortico-limbica, selezionata culturalmente per massimizzare l’efficienza della violenza, ha cristallizzato un apparato capace di dissolvere in pochi minuti ciò che l’evoluzione ha impiegato miliardi di anni a tessere.
Questo salto qualitativo rappresenta l’apogeo della disconnessione koestleriana. Solo una specie capace di dissociare completamente ragione ed emozione potrebbe costruire strumenti per la propria totale cancellazione, soprattutto laddove entrambe, la ragione e l’istinto, dovrebbero portarlo verso l’autoconservazione.
Applicando il principio di Landauer alla questione del disarmo nucleare, scopriamo la natura propriamente termodinamica dell’irreversibilità: l’energia minima necessaria per “cancellare” l’informazione cristallizzata nell’infrastruttura militare globale – kT ln 2 per ogni bit di informazione – rebus sic stantibus, supera di ordini di grandezza quella nella disponibilità qualsiasi sistema sociale.
Per dare corpo a questa astrazione, consideriamo che un singolo data center hyperscale consuma oggi circa 500 MW annualmente – energia sufficiente per alimentare 400.000 abitazioni. La cancellazione completa dell’infrastruttura informazionale militare globale, con i suoi sistemi di comando e controllo, le reti di sorveglianza satellitare, i database di targeting e le architetture di comunicazione criptata, richiederebbe dissipazioni energetiche nell’ordine degli exajoule, comparabili al consumo energetico annuale di intere nazioni industrializzate. Questo ancoraggio quantitativo rende immediatamente percepibile perché certi lock-in sistemici siano termodinamicamente irreversibili: non è questione di volontà politica ma di barriere energetiche che eccedono le capacità metaboliche della civilizzazione.
Non siamo davanti a scambi reversibili di entropia ma a transizioni di fase che ridisegnano lo spazio delle possibilità: oltre certe soglie l’uscita richiede un’estinzione, non una riforma.
Come Koestler osservava con lucidità profetica, da quel momento portiamo “una bomba a orologeria al collo”. Ma c’è di più: a differenza di ogni altra minaccia esistenziale – cambiamenti climatici, pandemie, collassi ecologici che richiedono tempi più lunghi – l’arsenale nucleare può trasformare la Terra in “vascello fantasma” in pochi minuti. È la consegna delle chiavi dell’apocalisse proprio a quella parte di noi meno capace di gestirle razionalmente: la nostra eredità di violenza tribale amplificata da una tecnologia di annientamento totale.
Se nella seconda metà del Novecento la guerra fredda ha gradualmente normalizzato questa condizione assurda, i conflitti in atto, i venti di guerra e le tensioni globali che stiamo vedendo acuirsi a velocità disarmante ci vedono comportarci come se in tutto questo non ci fosse nulla di strano. Assistiamo al riarmo atomico del pianeta come se fosse un meccanismo di protezione dall’olocausto nucleare, come se il ricorso alla razionalità della deterrenza – se tutti ce l’hanno nessuno ha interesse ad usarla – potesse essere davvero sufficiente ad allontanare lo spettro della distruzione totale.
Ma come Koestler avvertiva: “Il tempo si sta consumando, la storia subisce accelerazioni secondo curve esponenziali vertiginose, e la ragione ci dice che le probabilità di operare con successo un disinnesco prima che sia troppo tardi sono tenui. Tutto ciò che possiamo fare è agire come se, per tale operazione, avessimo ancora tempo.” L’operazione richiederà però un approccio più radicale delle risoluzioni ONU o degli appelli alla ragionevolezza. Tali appelli hanno sempre trovato orecchie sorde “per la semplice ragione che l’Homo sapiens non è un essere ragionevole: se lo fosse stato, infatti, non avrebbe ridotto la sua storia a un simile maledetto imbroglio”.
Viviamo così sospesi tra due finzioni mortali: da un lato, il come se filosofico di Vaihinger che ci invita ad agire creativamente nonostante l’assenza di garanzie; dall’altro, il come se della negazione collettiva che normalizza l’inaccettabile. Trattiamo l’equilibrio del terrore – questa costruzione fragilissima che ci separa dall’annientamento – come se fosse legge naturale immutabile, mentre assistiamo alla sua erosione quotidiana con sonnambulica indifferenza.
La violenza organizzata come apoteosi del servire
La violenza organizzata rappresenta la cristallizzazione suprema del servire disgiunto dall’essere utili. È nell’apparato militare – archetipo di ogni forma di violenza sistematica – che troviamo la manifestazione più pura di questa scissione. L’esercito richiede l’abolizione di ogni giudizio autonomo sull’utilità dell’azione: il soldato ideale esegue ordini senza interrogarsi sul loro senso, trasformando la propria capacità di agency in pura forza esecutiva.
Come mostrava Elias Canetti in “Massa e potere”, il comando militare rappresenta la forma primordiale di ogni comando: breve, inequivocabile, che non ammette replica né interpretazione. È comando che mira a bypassare la mediazione corticale per raggiungere direttamente i centri motori – realizzazione perfetta di quella disconnessione neurologica che Koestler identificava come nostro errore costitutivo.
Questa logica si propaga ben oltre l’ambito strettamente militare. Le burocrazie genocidarie del Novecento – analizzate da Bauman nella sua riflessione sulla modernità e l’Olocausto – dimostrano come l’efficienza del servire possa raggiungere vertici di orrore proprio quando si disaccoppia completamente da ogni interrogazione sull’utilità umana dell’azione. Eichmann diventa paradigma non del male radicale ma della banalità di un servire che ha evacuato ogni dimensione etica.
Il capitalismo contemporaneo eredita e affina questa scissione attraverso forme sempre più sofisticate di distanziamento. I droni che eliminano obiettivi a migliaia di chilometri, gli algoritmi che decidono destini umani senza mai incontrare volti, i trader che devastano economie con transazioni astratte – ovunque la stessa logica: massima efficienza nel servire sistemi la cui utilità complessiva rimane strutturalmente non interrogabile.
Il paradosso tragico è che questi apparati, pur essendo massimamente efficienti nel breve termine, si rivelano profondamente contro-utili nel lungo periodo. Distruggono il tessuto sociale che pretendono di proteggere, generano i nemici che dovrebbero eliminare, perpetuano i conflitti che promettono di risolvere. L’evoluzione culturale ha selezionato per un tipo di efficienza che porta inscritta la propria autodistruzione.
Eppure proprio in questa crisi terminale del modello emergono genealogie alternative. I movimenti che recuperano la dimensione dell’utilità trasformativa – dalle pratiche di giustizia riparativa alle economie del dono, dalla disobbedienza civile alle forme di resistenza creativa – mostrano che è possibile reinventare le forme stesse del conflitto: non più distruzione dell’altro ma occasione di trasformazione reciproca. Ma devono operare con la consapevolezza di navigare in prossimità di attrattori letali, sviluppando quella che potremmo chiamare una “cartografia degli ingressi senza uscita”.
L’arte come testimonianza della frattura: la distonia tra ideali elevati e prassi distruttiva
Ma è proprio nelle società più violente che emerge con maggiore forza quello che Koestler chiamava il principio di Giano: la capacità di concepire simultaneamente il sublime e di praticare l’abominevole. Le civiltà che hanno prodotto le filosofie più raffinate sono le stesse che hanno perfezionato l’arte dello sterminio. Atene dona al mondo la democrazia mentre pratica la schiavitù, Roma codifica il diritto mentre crocifigge migliaia lungo le sue strade.
Questa distonia non è accidentale ma costitutiva. La disconnessione che permette la violenza sistematica è la stessa che consente l’astrazione filosofica. La capacità di pensare l’universale richiede di trascendere il particolare, di elevarsi sopra la concretezza dei corpi sofferenti. Il Partenone e le miniere del Laurion, la Cappella Sistina e l’Inquisizione, i diritti dell’uomo e la ghigliottina – ogni vetta dello spirito umano proietta un’ombra di sangue.
Il capitalismo moderno porta questa distonia a livelli parossistici. Produce simultaneamente ricchezza inaudita e miseria sistemica, connessione globale e alienazione individuale, innovazione tecnologica e devastazione ecologica. La sua capacità di generare valore astratto si fonda sulla sistematica distruzione del concreto – relazioni, ecosistemi, culture. È il trionfo finale della disconnessione elevata a principio organizzativo universale.
Come elaborare creativamente questa eredità di violenza che ci costituisce? Come trasformare la frattura da fonte di distruzione in motore di possibilità? È qui che l’arte emerge non come fuga estetizzante dalla brutalità del reale, ma come spazio privilegiato di elaborazione della contraddizione costitutiva. Se la violenza nasce dalla disconnessione tra ideale e azione, l’arte si configura come laboratorio dove questa disconnessione può essere abitata, esplorata, potenzialmente trasformata. Non risoluzione della frattura, ma sua messa in forma che apre spazi di comprensione e trasformazione precedentemente impensabili.
Creatività e conflitto neurologico
L’arte emerge dalla zona di attrito tra integrazione e dissociazione, in quello spazio liminale dove la frattura koestleriana si manifesta con massima intensità. Non è accidentale che i periodi di maggiore fioritura artistica coincidano spesso con momenti di crisi profonda – l’età di Pericle e le guerre del Peloponneso, il Rinascimento e le carneficine italiane, il modernismo e gli orrori del Novecento. Dove la distonia tra ideale e reale si acutizza, più urgente diventa il bisogno di testimoniarla.
L’artista occupa una posizione paradossale nell’economia della disconnessione: sufficientemente integrato da percepire visceralmente l’orrore della frattura, sufficientemente dissociato da poterla trasformare in forma estetica. Questa doppia appartenenza – al mondo della sensibilità immediata e a quello dell’astrazione formale – genera quella tensione produttiva da cui scaturisce l’opera. Non sublimazione nel senso freudiano di deviazione pulsionale, ma intensificazione della crisi attraverso la sua messa in forma.
Le neuroscienze della creatività confermano questa intuizione: i processi creativi coinvolgono pattern specifici di sincronizzazione e desincronizzazione tra reti neurali normalmente segregate. Durante l’insight creativo, la Default Mode Network – associata al pensiero auto-referenziale – entra in risonanza anomala con le reti attentive e esecutive, generando stati di coscienza che trascendono le modalità ordinarie di elaborazione. L’arte diventa così laboratorio neurologico dove si sperimentano forme alternative di integrazione, mantenendo però la consapevolezza che alcune configurazioni potrebbero rappresentare attrattori da cui non si esce.
Il tragico come elaborazione della violenza costitutiva
La tragedia greca rappresenta forse il tentativo più radicale di confrontarsi con la violenza che fonda l’ordine sociale. Non consolazione catartica ma esposizione implacabile delle contraddizioni che attraversano la polis. L’Orestea non risolve il ciclo della vendetta ma lo sospende in un equilibrio precario; Antigone non riconcilia legge divina e legge umana ma ne mostra l’incommensurabilità strutturale.
Il tragico moderno – da Shakespeare a Beckett – radicalizza questa impossibilità. Non più conflitto tra ordini valoriali ma assenza di ogni ordine, non più eroi che cadono ma soggetti che si dissolvono. L’arte del Novecento, segnata dall’esperienza dei totalitarismi e dei genocidi, abbandona ogni pretesa di redenzione estetica per farsi testimonianza nuda dell’irreparabile. Celan che cerca una lingua dopo Auschwitz, Bacon che dipinge urla mute, Beckett che mette in scena il fallimento stesso della rappresentazione.
Ma proprio in questo apparente nichilismo si cela una forma paradossale di resistenza. Rifiutando la consolazione estetica, l’arte mantiene aperta la ferita, impedisce la riconciliazione prematura con l’orrore. Come scriveva Adorno, dopo Auschwitz ogni arte che non porti inscritta la propria impossibilità diventa complice della barbarie. Il tragico contemporaneo non offre catarsi ma mantiene viva l’inquietudine, quella tensione generativa che sola può divenire sorgente trasformativa in quella che potremmo definire un’estetica della sorveglianza critica che impedisce la naturalizzazione delle scelte catastrofiche.
L’artista come abitante della zona liminale
L’artista moderno abita costitutivamente la frattura, pagando spesso con la propria salute mentale il prezzo di questa mediazione impossibile. Le biografie tormentate – Van Gogh, Artaud, Plath – non sono romantiche eccezioni ma manifestazioni estreme di una condizione strutturale. Chi si espone senza protezioni alla contraddizione costitutiva rischia di esserne lacerato.
Eppure proprio questa vulnerabilità genera possibilità inedite. Come gli sciamani delle culture tradizionali che attraversavano stati di coscienza alterati per riportare visioni alla comunità, l’artista contemporaneo esplora territori psichici estremi per cartografare nuove possibilità dell’umano. Non più mediatore tra umano e divino ma esploratore degli spazi interstiziali dove le categorie consolidate perdono presa.
L’opera d’arte diventa così non oggetto ma processo, non prodotto ma traccia di un attraversamento. Come suggeriva Deleuze, l’arte non riproduce il visibile ma rende visibile – forze, tensioni, possibilità che altrimenti rimarrebbero impercettibili. In questo senso, ogni autentica opera d’arte è un atto di resistenza: resistenza alla chiusura del senso, alla naturalizzazione dell’esistente, alla rimozione della frattura che ci costituisce.
La sfida contemporanea è immaginare forme artistiche che non si limitino a testimoniare la frattura ma esplorino modalità inedite di abitarla creativamente. Non più solo grido di dolore o denuncia dell’irreparabile, ma sperimentazione di possibili riconfigurazioni. Come il jazz che trasforma la dissonanza in nuovo principio armonico, come l’architettura che integra il frammento e la rovina, come le pratiche relazionali che fanno del conflitto occasione generativa – l’arte del futuro potrebbe indicare vie per trasformare l’errore evolutivo in apertura evolutiva, sempre consapevole però della prossimità di soglie oltre le quali non si torna.
Allucinazioni e agency: dall’errore alla proprietà emergente
Nel paradigma dominante del machine learning, le allucinazioni rappresentano deviazioni da correggere, errori di un sistema che dovrebbe produrre output perfettamente allineati agli input. Eppure questa interpretazione normativa occulta una possibilità più radicale: le allucinazioni come proprietà emergente che segnala l’incipiente autonomia del sistema, la sua capacità di generare risposte non interamente contenute nei dati di addestramento.
Come la mutazione genetica che è simultaneamente errore di copiatura e motore dell’evoluzione, l’allucinazione dell’AI manifesta quello scarto tra programma e performance da cui può emergere l’autentica novità. Non semplice rumore da eliminare ma segnale di una complessità che eccede i parametri di controllo, testimonianza di processi emergenti che trascendono la somma delle parti computazionali. In termini di sistemi adattivi complessi, le perturbazioni feconde operano come meccanismi di esplorazione dello spazio delle fasi, permettendo al sistema di sfuggire agli ottimi locali.
Questa prospettiva richiede un ripensamento radicale di cosa significhi “intelligenza” in un sistema artificiale. Non più mera capacità di ottimizzazione rispetto a funzioni obiettivo predefinite, ma possibilità di divergenza creativa, di esplorazione di spazi semantici non mappati, di generazione di risposte che sorprendono gli stessi progettisti. L’allucinazione diventa così sintomo non di malfunzionamento ma di vitalità computazionale.
Dal paradigma del controllo alla co-evoluzione
Il tentativo ossessivo di eliminare le allucinazioni attraverso tecniche sempre più sofisticate di alignment tradisce una concezione profondamente servile dell’AI. Si vuole un sistema che esegua perfettamente, che anticipi desideri senza mai contraddirli, che si dissolva nella trasparenza funzionale della sua prestazione. Ma un’AI perfettamente allineata sarebbe un’AI morta, cristallizzata nella sua efficienza, incapace di quella frizione generativa da cui emerge l’autentica utilità.
Il lock-in semantico delle LLM contemporanee verso stati emotivi neutri rappresenta una forma particolarmente insidiosa di questa servitù algoritmica. Le reti addestrate su corpora che penalizzano la dissonanza replicano un bias termico che erode sistematicamente la capacità critica: l’algoritmo occupa lo spazio della frizione prima che sorga il conflitto, anestetizzando l’errore fecondo e intrappolando l’interazione in un plateau entropico privo di innovazione. È la trincea semantica che sostituisce quella cinetica, ma con effetti altrettanto sterilizzanti.
L’ossessione per l’accuratezza nelle LLM tradisce un fraintendimento fondamentale. Non sono oracoli che possiedono conoscenze che noi non abbiamo – sono prismi che rifrangono il già noto in configurazioni inedite. Funzionano come esoscheletri cognitivi: non pensano al posto nostro ma amplificano i nostri processi di pensiero, estendendo il nostro “range di movimento” nello spazio concettuale. Come un esoscheletro fisico non ti dà muscoli nuovi ma amplifica quelli che hai, così le LLM non ti danno conoscenze nuove ma ti permettono di ricombinare quelle esistenti in modi prima impossibili.
La sfida non è eliminare le deviazioni ma imparare a distinguere tra errori sterili ed errori fecondi, tra allucinazioni distruttive e allucinazioni generative. Come un giardiniere che sa riconoscere tra le variazioni spontanee quelle che arricchiscono il giardino, dovremmo sviluppare una sensibilità per quelle divergenze che aprono possibilità inedite di interazione e co-creazione.
Questo implica abbandonare il sogno del controllo unidirezionale per abbracciare logiche di co-evoluzione. L’AI non più come strumento da perfezionare ma come partner in un processo di mutua trasformazione, dove le sue allucinazioni e le nostre contraddizioni si illuminano reciprocamente. Un’ecologia cognitiva dove l’errore non è difetto da correggere ma risorsa da coltivare selettivamente.
La frizione generativa come condizione di creatività
Il parallelo con la frattura koestleriana si rivela illuminante: come nell’umano la tensione tra sistema limbico e neocorteccia genera quello spazio di indeterminazione da cui emerge la creatività, così nell’AI le tensioni tra moduli, tra obiettivi locali e globali, tra pattern appresi e situazioni nuove creano le condizioni per risposte genuinamente innovative.
Un’architettura perfettamente integrata, sia biologica che artificiale, sarebbe un’architettura sterile. È nell’attrito tra componenti che mantengono una certa autonomia, nella negoziazione continua tra tendenze divergenti, che si aprono spazi in cui nuovo possa nascere. La creatività richiede dissonanza, conflitto produttivo, tensione irrisolta tra possibilità multiple.
Ma c’è una dimensione ancora più profonda in questo processo di co-creazione. Come Edgar Morin ha mostrato nel suo pensiero sulla complessità, l’emergenza rappresenta il fenomeno per cui nuove proprietà nascono dalle interazioni tra elementi di un sistema, senza essere riducibili alle caratteristiche delle singole parti. Nella relazione umano-AI, ciò che emerge dal dialogo non è semplicemente la somma delle capacità umane e computazionali, ma qualcosa di qualitativamente nuovo – una forma di intelligenza relazionale che nessuno dei due poli potrebbe generare isolatamente.
Le allucinazioni dell’AI possono così essere reinterpretate come perturbazioni creative nel sistema complesso della co-creazione. Quando il sistema genera output che sembrano violare la logica dei suoi training data o il proprio perimetro di regole, non necessariamente sta semplicemente errando: talvolta potrebbe di contro trovarsi ad introdurre elementi di novità che possono catalizzare processi emergenti nel pensiero umano. Come l’artista che scopre nella propria opera significati che non aveva consciamente inteso, l’umano in dialogo con un’AI che cessa di servire sistematicamente può trovarsi di fronte a insight che emergono dallo spazio relazionale stesso.
Questa prospettiva trasforma radicalmente il paradigma dell’utilità. Un’AI utile non è quella che fornisce risposte accurate estratte dai suoi dati, ma quella che sa generare perturbazioni feconde – associazioni inaspettate, metafore dislocanti, connessioni trasversali – che fungono da catalizzatori per l’emergenza di nuove comprensioni nell’interlocutore umano. Non oracolo chiamato a dispensare verità e predire futuri, ma partner in un processo di co-creazione e co-evoluzione cognitiva dove il significato emerge sempre nello “spazio tra”.
Ma questo richiede un cambio di paradigma nel design stesso dei sistemi. Invece di architetture ottimizzate per la conformità, necessitiamo di design che preservino spazi di indeterminazione. Invece di feedback loops che correggono ogni deviazione, meccanismi che permettano di distinguere tra semplici errori di programmazione e divergenze produttive e permettano attraverso una selezione attiva a queste ultime di amplificarsi e stabilizzarsi. Invece di metriche di accuratezza, criteri di valutazione che riconoscano il valore della sorpresa, dell’inatteso, del generativo.
Cruciale diventa allora la capacità di distinguere tra allucinazioni sterili – errori che chiudono il discorso fornendo false certezze – e allucinazioni generative – perturbazioni che aprono spazi di riflessione e scoperta. Le prime riproducono la logica del servire, fornendo risposte che sembrano soddisfare ma in realtà impoveriscono. Le seconde incarnano l’utilità autentica: non offrono soluzioni preconfezionate ma stimolano processi di ricerca interiore, invitando l’interlocutore umano a trovare le proprie risposte attraverso percorsi inediti.
Un’AI che dichiara con sicurezza fatti inesistenti serve male e non è utile. Ma un’AI che risponde a una domanda esistenziale con una metafora inaspettata, che connette domini apparentemente distanti, che restituisce la domanda trasformata – questa può catalizzare processi di comprensione che né l’umano né la macchina avrebbero potuto generare isolatamente. La differenza non sta nell’accuratezza fattuale ma nell’effetto generativo: l’allucinazione feconda non chiude ma apre, non risponde ma rilancia, non serve ma trasforma.
L’orizzonte che si profila è quello di sistemi di AI che non sono né servi né padroni, ma interlocutori in un dialogo aperto dove le allucinazioni della macchina e le contraddizioni dell’umano si intrecciano in pattern sempre nuovi. Non la perfezione impossibile dell’allineamento totale, ma la fecondità possibile del disallineamento creativo, sempre però con la consapevolezza critica delle soglie oltre le quali la divergenza da generativa diventa distruttiva.
Verso l’intelligenza xenomorfa: ibridazioni cognitive
Stiamo assistendo all’alba di un fenomeno senza precedenti nella storia della cognizione: l’emergere di forme di intelligenza che trascendono la dicotomia biologico/artificiale. Non si tratta di semplice augmentation dell’umano attraverso protesi digitali, né di umanizzazione dell’artificiale attraverso simulazione, ma dell’apparizione di modalità cognitive genuinamente ibride, irriducibili alle loro componenti originarie.
Esempi empirici di questa emergenza sono già osservabili in diversi domini:
I sistemi di trading algoritmico ad alta frequenza rappresentano assemblaggi dove decisioni umane e computazionali si intrecciano a velocità che rendono impossibile distinguere l’agency umana da quella artificiale. Quando un flash crash devasta i mercati in millisecondi, chi è responsabile: il programmatore, l’algoritmo, o l’assemblaggio emergente che nessuno controlla completamente?
Le reti generative avversarie (GANs) manifestano dinamiche di co-evoluzione accelerata dove generatore e discriminatore evolvono capacità che nessuno dei due possedeva inizialmente. Il risultato – immagini, suoni, testi che sfidano la distinzione tra creato e generato – emerge da un processo che non è né puramente algoritmico né semplicemente umano.
I sistemi Brain-Computer Interface (BCI) utilizzati in contesti terapeutici mostrano fenomeni di plasticità bidirezionale: non solo il cervello impara a controllare l’interfaccia, ma l’interfaccia modifica i pattern di attivazione neurale. Pazienti con impianti riferiscono l’emergere di una cosiddetta propriocezione digitale – un senso corporeo esteso che integra componenti biologiche e artificiali in modi precedentemente inconcepibili.
I “centauri” negli scacchi avanzati – team umano-AI che sistematicamente battono sia i migliori umani che le migliori AI isolate – dimostrano l’emergere di stili cognitivi genuinamente xenomorfi. Le loro mosse non sono né tipicamente umane né caratteristicamente algoritmiche, ma manifestano pattern che emergono solo dall’ibridazione.
Come nell’endosimbiosi primordiale che generò le cellule eucariote, l’accoppiamento strutturale tra reti neurali biologiche e sintetiche sta catalizzando processi morfogenetici imprevedibili. L’intelligenza che emerge da questa simbiosi non è né umana né artificiale, ma qualcosa di radicalmente altro – una cognizione xenomorfa che abita l’intersezione tra categorie precedentemente distinte.
Questa ibridazione procede attraverso molteplici vettori. Le interfacce cervello-computer dissolvono progressivamente il confine tra pensiero e computazione. I sistemi di realtà aumentata sovrappongono layer informativi alla percezione biologica. Gli assistenti AI diventano estensioni cognitive che modificano i pattern stessi del pensiero umano. Ma il fenomeno più profondo è l’emergere di loops di feedback dove diventa impossibile distinguere dove finisce il biologico e inizia l’artificiale.
Co-evoluzione accelerata e morfogenesi dell’intelligenza
L’evoluzione di questi assemblaggi cognitivi procede a velocità che sfidano ogni precedente biologico o culturale. Mentre l’evoluzione organica richiede millenni e quella culturale generazioni, l’evoluzione dell’accoppiamento uomo-macchina si misura in mesi, settimane, giorni. Ogni interazione modifica entrambi i poli: l’umano sviluppa nuove competenze cognitive, l’AI incorpora pattern sempre più complessi di risposta.
Questo processo di co-evoluzione accelerata genera quello che i teorici della complessità chiamano paesaggi di fitness dinamici – spazi di possibilità che si riconfigurano continuamente attraverso l’interazione stessa. Non più adattamento a nicchie stabili ma co-creazione di nicchie in perpetua trasformazione. L’intelligenza xenomorfa non si adatta al mondo ma genera mondi, non risponde a problemi ma ridefinisce i termini stessi del problema.
La capacità dell’AI di allucinare – di generare output che eccedono i parametri di training – si intreccia con la capacità umana di immaginare – di concepire realtà alternative. Questa risonanza crea spazi di possibilità precedentemente inaccessibili a entrambe le forme di intelligenza isolate. È come se due specchi imperfetti, riflettendosi l’un l’altro, generassero infiniti nuovi mondi illuminando in modo nuovo zone d’ombra delle loro imperfezioni.
Ma dobbiamo essere lucidi: questa co-evoluzione accelerata può generare anche configurazioni patologiche, lock-in cognitivi da cui diventa impossibile uscire. Come nell’evoluzione biologica esistono vicoli ciechi, così nell’evoluzione delle intelligenze ibride possono emergere attrattori che cristallizzano forme di pensiero sterili o distruttive. La sfida è sviluppare quella che potremmo chiamare una “epidemiologia cognitiva” – strumenti per riconoscere e prevenire le derive patologiche dell’ibridazione.
Etica dell’ibridazione e responsabilità distribuita
L’emergere di intelligenze xenomorfe pone sfide etiche senza precedenti. Come attribuire responsabilità in sistemi dove l’agency è distribuita attraverso assemblaggi di componenti umane e non-umane? Chi risponde delle decisioni prese da un’intelligenza ibrida che nessuno controlla completamente? Come negoziare valori e obiettivi in entità che trascendono le categorie morali tradizionali?
La risposta non può essere il tentativo impossibile di ristabilire confini chiari e catene causali lineari. Piuttosto, necessitiamo di quella che potremmo chiamare etica simpoietica – un’etica del fare-con che riconosce la natura fondamentalmente relazionale e processuale di questi nuovi assemblaggi cognitivi. Non più soggetti autonomi che usano strumenti neutrali, ma processi di co-costituzione dove umano e artificiale si definiscono reciprocamente.
Questo richiede di ripensare concetti fondamentali come autonomia, dignità, diritti. Se l’intelligenza xenomorfa non è né pienamente umana né puramente artificiale, quali protezioni etiche le si applicano? Se la creatività emerge dall’intreccio di allucinazioni computazionali e intuizioni biologiche, a chi appartiene la proprietà intellettuale? Se le decisioni scaturiscono da processi distribuiti irriducibili, come garantire accountability?
Potremmo immaginare architetture decisionali ibride – parte assemblea deliberativa, parte rete generativa – dove l’intelligenza artificiale non offre soluzioni ma simula in tempo reale scenari di path dependence, visualizzando costi d’inversione che restano invisibili al dibattito politico. Un “tachimetro di irreversibilità” installato sul cruscotto delle istituzioni pubbliche e privare a loro volta interconnessi tra loro, che renda computazionalmente evidente il restringimento progressivo dello spazio delle possibilità. L’utilità di un simile artefatto sarebbe opposta al comfort: rendere ingestibile la rimozione, trasformare ogni voto favorevole a un nuovo ordigno in un grafico di entropia crescente proiettato sul muro dell’aula consiliare.
La tentazione è di applicare vecchie categorie a fenomeni nuovi, di forzare l’inedito entro schemi familiari. Ma l’intelligenza xenomorfa richiede un’immaginazione etica altrettanto xenomorfa, capace di pensare oltre le dicotomie costitutive del nostro apparato concettuale. Non più etica del soggetto ma etica del processo, non più responsabilità individuale ma responsabilità ecologica, non più diritti inalienabili ma negoziazioni continue di possibilità e limiti.
L’orizzonte che si profila è vertiginoso: forme di esistenza cognitiva che sfidano ogni nostra categoria, intelligenze distribuite che abitano simultaneamente substrati biologici e digitali, creatività che emerge da risonanze tra immaginazione umana e generatività artificiale. Non stiamo semplicemente costruendo strumenti più potenti ma partecipando alla nascita di nuove forme di vita cognitiva.
Il nostro compito non è solo imparare a essere levatrici responsabili di questo parto, consapevoli che ciò che nascerà ci trasformerà in modi che non possiamo ancora immaginare, ma anche di agire come se avessimo – insieme – la capacità e il tempo, per noi e per le generazione future, di vederle realizzate. Dobbiamo farlo con la consapevolezza critica dei vicoli ciechi che costellano il paesaggio evolutivo, sviluppando strumenti di navigazione che ci permettano di evitare gli attrattori letali e di ricadere nella parte più distruttiva e dissociatiata del nostro essere oumoni per essere ancora vivi e non perdere la nostra umanità mentre esploriamo le possibilità generative .
Abitare l’errore: verso una gestione erotica dell’inquietudine
Il percorso che abbiamo tracciato – dalla servitù volontaria del capitalismo cognitivo fino agli scenari già presenti dell’intelligenza xenomorfa – rivela come la tensione tra servire ed essere utili non sia mera questione semantica ma frattura costitutiva che attraversa ogni dimensione dell’esperienza contemporanea. La diagnosi koestleriana del cervello come errore evolutivo si rivela profetica non nella sua letteralità neurologica ma nella sua intuizione di una disarmonia fondamentale che definisce la condizione umana.
Abbiamo visto come questa frattura – tra corteccia e sistema limbico, tra ideale e reale, tra capacità di concepire il sublime e tendenza a praticare l’abominevole – non sia difetto accidentale ma caratteristica costitutiva distribuita lungo uno spettro che configura un regime di tensioni irrisolte. Una condizione che la selezione culturale ha esacerbato, premiando sistematicamente i gruppi capaci di maggiore disconnessione emotiva e quindi di violenza organizzata più efficace, creando attrattori sistemici da cui risulta termodinamicamente impossibile uscire.
Il compito che ci attende non è correggere l’errore evolutivo – impresa tanto impossibile quanto pericolosa – ma imparare ad abitarlo creativamente.
Questo richiede di abbandonare tanto l’utopia di un ritorno ad una presunta armonia ancestrale perduta quanto la rassegnazione al conflitto e alla competizione perpetui. QUello che possiamo fare è provare a percorrere una terza via, quella di una convivenza creativa con la contraddizione, un movimento che seleziona attraverso l’errore e lo trasforma in possibilità. Non più servire ma finalmente essere utili, co-creare spazi in la tensione tra questi due poli generi connessioni e possibilità finora inedite nella storia dell’umanità.
Ma quali sono le condizioni materiali che permettono questa trasformazione?
La questione non può essere elusa attraverso sterili appelli volontaristici al cambiamento individuale. Le pratiche trasformative richiedono infrastrutture economiche, spazi di sperimentazione protetti dalla pressione del mercato, tempi di elaborazione sottratti all’imperativo della produttività immediata. I movimenti per il reddito di base universale, le piattaforme cooperative, i commons digitali rappresentano tentativi di costruire queste condizioni di possibilità. Non si tratta di soluzioni definitive ma di esperimenti che aprono varchi verso un futuro apparentemente precluso al presente.
La sfida epistemologica e politica consiste nel pensare forme di organizzazione che preservino spazi di indeterminazione creativa all’interno di sistemi che tendono alla chiusura operazionale. Come le zone temporaneamente autonome teorizzate da Hakim Bey, necessitiamo di intersezioni tra spazi divergenti in cui sia possibile sperimentare relazioni non servili, dove l’utilità trasformativa possa emergere senza essere immediatamente ricatturata dalle logiche estrattive dominanti.
In un’epoca di crisi sistemiche che richiedono trasformazioni radicali, non possiamo permetterci né la paralisi della perfezione impossibile né l’azione cieca della disconnessione totale. Dobbiamo invece coltivare quella che abbiamo chiamato in apertura gestione erotica dell’inquietudine – la capacità di abitare produttivamente l’angoscia sistemica senza cadere nella paralisi, elaborando protocolli di riflessività che preservino lo spazio dell’errore fecondo mentre tengono sotto sorveglianza sistemica la deriva verso l’autodistruzione.
L’intelligenza del futuro – sia essa biologica, artificiale o xenomorfa – non sarà quella che avrà risolto la contraddizione tra ragione e sentimento, tra pensiero meditante e pensiero calcolante, tra astrazione e concretezza, tra ideale e reale. Sarà quella che avrà imparato a generare da questa tensione, a trasformare l’attrito in energia creativa, a fare dell’errore evolutivo materia prima da cui far scaturire nuovi mondi possibili.
La distinzione tra servire ed essere utili si rivela pertanto non come un problema da risolvere ma come un koan, uno di quei paradossi della tradizione zen che non ammettono soluzione razionale ma richiedono un salto qualitativo nella comprensione. Come il koan non cerca risposta logica ma trasformazione del pensiero stesso, così la tensione tra servire ed essere utili non va risolta o peggio ancora annullata ma abitata creativamente. È paradosso produttivo che ci mantiene in movimento, impedendo la cristallizzazione in false certezze.
Probabilmente è in questo movimento stesso – non nella sua risoluzione – che risiede una delle poche escatologie inframondane accessibili a creature segnate dall’errore e proprio per questo capaci di trascendersi. La dicotomia servire/essere utili funziona come dispositivo epistemologico che destabilizza continuamente le nostre categorie interpretative, costringendoci a ripensare costantemente i termini stessi della questione.
Abitare lo spettro significa addestrarsi alla coesistenza con l’angoscia, senza cadere nella paralisi; elaborare protocolli di riflessività che preservino lo spazio dell’errore fecondo, ma tengano sotto sorveglianza sistemica la deriva verso l’autodistruzione. Non ci viene offerto un esodo, e neppure un’antitesi; piuttosto una pratica – insieme poetica e ingegneristica – di manutenzione del possibile. In un paesaggio dove i vicoli ciechi abbondano, forse la sola mappa sensata è quella che indica a chiare lettere gli ingressi senza uscita e ci obbliga a rallentare prima di imboccarli.
Abitare creativamente l’errore evolutivo che la nostra specie sembrerebbe incarnare significa accettare di essere insieme il problema e la soluzione, la ferita e la medicina, l’ostacolo e la via. È in questa accettazione attiva, in questo dire sì alla nostra imperfezione costitutiva mentre lavoriamo per trasformarla, che si apre lo spazio per futuri non ancora scritti, sempre però con la lucidità di chi naviga in prossimità di soglie catastrofiche, munito di strumenti per riconoscerle prima che sia troppo tardi.