A proposito di spinta gentile

Sono passati poco più di 10 anni dall’uscita di “Nudge. La spinta gentile”, ma i temi trattati in questo celebre best seller, al tempo del lockdown, del distanziamento sociale, degli sceriffi di quartiere, nel bel mezzo dello stradominio delle AI e dei big data, dei social networks, dell’oligopolio dei dati (oggi ancora più forte nonostante o forse proprio grazie allo Cambridge Analytica) sono più che mai attuali e ci spingono ad ulteriori riflessioni.  

Come prima cosa verrebbe da chiedersi se sia giusto o meno influenzare le scelte dei cittadini e chi e in che modo possa arrogarsi il diritto di decidere su cosa e in che modo, a chi dare il compito di farlo e con quali limiti.

Secondo Thaler, pur volendo, è impossibile non influenzare le scelte altrui, un pensiero che mi ha subito richiamato alla mente uno dei capisaldi della teoria ermeneutica Gadameriana.  Secondo Gadamer nessuno di noi, per quanto animato dai migliori propositi, è in grado di sfuggire ai propri pregiudizi. Il pre-giudizio, non inteso con una accezione negativa, ma semplicemente, in senso etimologico, come un giudizio che precede, ovvero che avviene prima, è per Gadamer parte imprescindibile di qualsiasi processo interpretativo.

Semplificando, quando interpretiamo un testo (Gadamer), così come quando operiamo delle scelte (Thaler), siamo condizionati da una serie di fattori comportamentali, ambientali, culturali, emotivi… che influenzano la nostra interpretazione della realtà e pertanto condizionano le nostre scelte.

Tuttavia, se da un lato l’ermeneutica Gadameriana sembra spingerci verso una presa di coscienza critica rispetto ai nostri pre-giudizi quale punto di partenza del processo interpretativo, dall’altra il Behaviourismo Thaleriano propone invece che l’insieme delle variabili che influenzano le nostre scelte possano essere manipolate e utilizzate da istituzioni e governi per indirizzare le nostre decisioni verso la costruzione di “benessere sociale ed individuale”

Secondo Thaler, questo deve avvenire attraverso l’opera di “architetti delle scelte” che tramite un vero e proprio lavoro di ingegneria comportamentale spingano i decisori, nel nostro caso i cittadini, verso le decisioni e quindi i comportamenti che il governo, le istituzioni pubbliche, reputano migliori per la salute, il benessere, la gestione del denaro, il rapporto con le istituzioni, il rapporto con la società…etc.  Questa azione, assolutamente non coercitiva, leggera e quasi impalpabile, viene descritta dall’autore come una sorta di “nudge” (spintarella), di “pungolo”, che non andrebbe ad inficiare o peggio annullare la nostra libertà di scelta, ma a detta dello stesso rappresenterebbe nulla più che una “spinta gentile” verso una direzione.

Questo approccio è definito dagli autori anche come “paternalismo libertario”. No, non si tratta di un ossimoro. Tale concetto prevede infatti la salvaguardia della libertà degli individui di fare come credono, ovvero, parafrasando Milton Friedman, di “essere liberi di scegliere”, ma, al tempo stesso, che sia auspicabile farlo con l’aiuto dei cosiddetti “architetti delle scelte”, ovvero di coloro che sono in grado, per posizione e formazione, di influenzare le scelte degli individui.

Il concetto di paternalismo libertario prevede quindi l’influenza degli architetti delle scelte mirata però non al proprio profitto individuale, come avviene secondo dinamiche simili nel neuromarketing rispetto nelle scelte di consumo, ma a favore del miglioramento delle vite degli individui e quindi della collettività. Per citare gli stessi autori, il compito degli architetti delle scelte è quello di “influenzare i comportamenti degli individui al fine di rendere le loro vite più lunghe, sane e migliori”.

Il tema dell’influenza delle istituzioni sulla libertà di scelta degli individui non è affatto nuovo alla letteratura, scientifica e non, basti pensare ad esempio allo straordinario “A Clockwork Orange” di Burgess, magistralmente adattato sul grande schermo dall’immane Stanley Kubrik. Anche in quel caso la libertà di scelta, il libero arbitrio, è forse il tema centrale che attraversa l’intera novella. La domanda che Burgess ci spinge a porci penso possa essere riassunta in questo modo (chiedo venia, ma passatemi la semplificazione estrema): quanto è auspicabile un mondo in cui il male e la criminalità vengono debellati al costo dell’eliminazione completa del libero arbitrio?

È possibile pensare di influenzare e condizionare le esistenze altrui, limitare o viziare scientificamente la libertà di scelta degli individui al fine di rendere le loro vite “migliori” o anche solo “socialmente più utili” e/o “accettabili”, avendo alla base come unica giustificazione etica e morale la ragionevole ma tuttavia soggettiva certezza di farlo nel loro interesse e per il loro bene?  

La differenza secondo la teoria Thaleriana è che non si debba limitare la libertà di scelta dell’individuo ma ci si debba limitare a dirigerla verso il bene comune. L’individuo, nell’ottica proposta dal paternalismo libertario, è sempre libero di scegliere diversamente.

Il concetto stesso di bene comune non è di certo di facile trattazione, per cui ci limiteremo ad osservare che è un concetto che varia e di molto per epoca e latitudine e che la storia è lastricata di guerre, morti, crimini, tragedie e ingiustizie consumate lungo la strada del raggiungimento del cosiddetto bene comune.

C’è un altro romanzo straordinario, in cui il volere di uno Stato votato al “benessere collettivo”, all’appartenenza dei singoli alla società e all’annullamento indotto dell’individuo sono spinti alle estreme conseguenze e in cui l’annullamento della libertà di scelta individuale segue un percorso più subdolo e sottile. Si tratta di “Brave new world” di Aldous Huxley.

La società descritta da Huxley è una società apparentemente perfetta. Catene di montaggio sfornano uomini eugeneticamente predestinati, programmati attraverso l’ipnopedia alla propria funzione sociale. Non esistono dolore, vecchiaia, fame o sofferenza. Il Mondo Nuovo è un mondo in cui tutto è burocratizzato, sancito dal volere di stato, in cui ogni aspetto dell’esistenza legato alle emozioni è stato eliso, plagiato, sostituito da innocui succedanei, da surrogati chimicamente appaganti e socialmente inoffensivi.

Ogni ambito dell’esistenza è votato alla produzione e al consumo. Ogni cosa, persino il sesso, non è altro che manifestazione del controllo sociale. Ogni individuo appartiene a tutti e tutti a loro volta appartengono alla società. Una tale ideologia, portata alle estreme conseguenze, non può che portare all’annullamento dell’individualità e dell’individuo. Anche nel Mondo Nuovo a nessun individuo è proibito di scegliere, ma è di fatto la costruzione sociale stessa in cui gli individui si trovano incastonati a portare inevitabilmente la maggior parte di loro, non solo a non scegliere affatto, ma a non porsi neppure il problema.

Un benessere asettico, indotto e progettato a tavolino può veramente essere socialmente più auspicabile e umanamente più appagante del perseguimento del libero arbitrio anche a costo delle sue talvolta estreme conseguenze? insomma, estremizzando il concetto, è preferibile scegliere correndo il rischio di sbagliare o non sbagliare mai con la certezza di non scegliere affatto?

Ovviamente, nel caso di Huxley e Burgess, parliamo di scenari distopici estremi ben lontani sia dalle intenzioni degli autori di Nudge che dalle sperimentazioni portate avanti da istituzioni e governi sulla base delle teorie Thaleriane. Sperimentazioni a cui lo stesso Thaler ha partecipato in prima persona in qualità di consulente del governo britannico di David Cameron contribuendo alla creazione del “Behavioural Insights Team”.

In verità, i risultati dell’applicazione del “paternalismo libertario” a cui abbiamo potuto assistere in questi anni sono stati senza dubbio molto incoraggianti sia in termini di efficacia che in termini di impatto.

Spesso, come nel caso della donazione degli organi, è bastato semplicemente modificare l’impostazione attraverso cui veniva chiesto ai cittadini di scegliere, ribaltandola. In molti Paesi, infatti, si è presa la decisione di considerare di base tutti i cittadini disposti alla donazione, salvo i casi di esplicito diniego.

Le teorie comportamentiste ci insegnano che, anche nei casi in cui modificare una scelta non ha per il soggetto decisore alcun costo, le persone, di norma, preferiscono non cambiarla. Questo è esattamente quello che è accaduto. Infatti, solo una piccola parte della popolazione ha scelto di opporre esplicito diniego alla donazione.

Attraverso l’azione degli architetti delle scelte l’obiettivo di partenza dei governi è stato certamente ampiamente raggiunto, senza traumi e con il minimo sforzo, e la percentuale di donatori in questi Paesi è cresciuta esponenzialmente. Tuttavia, mettete da parte per un attimo l’ottimo risultato raggiunto e provate a concentrarvi sui fatti. Ciò che è accaduto è che semplicemente i cittadini hanno continuato a non scegliere. Infatti, la cosa che lascia perplessi è proprio che l’obiettivo sia stato raggiunto senza che il comportamento dei cittadini venisse in alcun modo modificato. I cittadini non sono diventati più consapevoli, più altruisti o più responsabili. La maggior parte delle persone ha semplicemente continuato a non scegliere affatto, limitandosi a non modificare la scelta di partenza che qualcun altro aveva fatto al loro posto.

Certo non è stata eliminata la libertà di scelta degli individui, chiunque poteva e può esercitare il proprio diritto di diniego, ma, nei fatti, quello che è accaduto non è per nulla differente da quello che accadeva in passato quando nessun cittadino veniva considerato donatore salvo esplicito consenso. Nessuno ha scelto. Potremmo definirla come la vittoria dell’indolenza e dell’apatia. D’altronde, come direbbe qualcuno, anche scegliere di non scegliere è pur sempre una scelta.

Stesso discorso può valere per la questione delle tasse. Il governo britannico, anche in questo caso, ha utilizzato la descrizione delle opzioni di scelta come un modo per influenzare il comportamento dei propri cittadini rispetto pagamento della tassa sul reddito, modificando la propria comunicazione. Semplicemente informando i cittadini morosi che la maggior parte delle persone che abitano nella loro stessa zona aveva già pagato, il governo ha incassato un incremento dei versamenti del 15%. Anche in questo caso, non si trattava di una informazione che non fosse già implicitamente nella disponibilità del decisore. Il fatto che la maggior parte delle persone, in termini assoluti, per fortuna, versi puntualmente le tasse non è certo un mistero. Tuttavia, è bastato rendere questa informazione esplicita per ottenere il risultato sperato, e tutto questo è avvenuto nonostante il fatto nessuno dei decisori avesse i mezzi o la possibilità di verificare puntualmente se quanto dichiarato dal governo fosse, nella propria zona, effettivamente, rispondente al vero. Il solo fatto di esserne messi a conoscenza, ha spinto una percentuale rilevante dei cittadini morosi a regolarizzare la propria posizione con il fisco, secondo una tendenza, del tutto umana, che ci porta di norma a misurare i nostri comportamenti individuali in funzione di quelli del gruppo sociale a cui apparteniamo e che ci spinge in buona parte dei casi ad uniformarci, quanto più possibile, alle scelte delle persone che ci circondano.

Nondimeno, la domanda che viene da porsi è: l’intervento degli “architetti delle scelte” ha accresciuto la consapevolezza e il senso civico dei morosi o si è limitato ad influenzarne le decisioni al fine di raggiungere l’obiettivo che si era prefisso, ovvero recuperare parte delle imposte dovute e non pagate?

C’è chi potrebbe asserire che la spinta gentile porti comunque all’educazione attraverso la pratica e che, proprio per questa ragione, spingere gli individui a mettere in atto un comportamento, ad attivare delle buone pratiche, a toccarne con mano i vantaggi, possa rappresentare comunque la strada più breve, rapida ed efficace verso la consapevolezza e il divenire cittadini e individui migliori. 

Ma siamo certi che sia veramente così? è davvero questa la direzione giusta?

L’unica cosa che mi sento di dire a riguardo è che, in ogni caso, tutti quanti dovremmo riflettere molto più attentamente sulle scelte che facciamo ogni giorno. Dovremmo tutti quanti sforzarci di uscire dall’omeostasi e cominciare a scegliere nella consapevolezza che, ci piaccia o meno, siamo tutti dei decisori influenzati ed influenzabili. È proprio a partire da questo assunto, da questa consapevolezza critica, che dobbiamo e possiamo ripensare il nostro ruolo nella società e acquisire quegli strumenti indispensabili a migliorare le nostre capacità decisionali non solo per il bene nostro, di chi ci sta attorno e delle generazioni a venire, ma anche per permettere a noi stessi di scegliere di essere veramente dei cittadini migliori e non ritrovarci un giorno inconsapevolmente ad esserlo, secondo il metro e sotto l’influenza delle decisioni di qualcun altro.

 

PS. Per quanto strano possa apparire, è mia ferma convinzione che all’accrescersi delle conoscenze a nostra disposizione sembri corrispondere una parallela diminuzione delle certezze. Almeno così è stato nel mio caso. Per cui, come è naturale che sia, con il passare del tempo, ho la sensazione di avere sempre meno risposte da dare e sempre più domande da condividere con gli altri nella speranza di addivenire insieme ad una “verità”, per quanto parziale, quantomeno comune. Considerate pertanto questo post solo uno dei tanti possibili punti di partenza, non di certo come un punto d’arrivo.