Negli ultimi mesi il tempo per la scrittura e per la lettura sono un po’ venuti a mancare, ma grazie ad una provvidenziale influenza ho potuto, seppur in intervalla insaniae, concedermi la rilettura di uno di quelli che considero uno degli scritti cardine del pensiero filosofico occidentale, mi riferisco al celebre discorso sulla Gelassenheit, tenuto il 30 ottobre 1955 in occasione del 175° anniversario della nascita del compositore Konstantin Kreutzer. Il rapporto tra pensiero calcolante e pensiero meditante, e le riflessioni contenute in questo breve ma densissimo scritto sono quantomai attuali e cariche di interrogativi che non solo non dovremmo smettere di porci ma a partire dai quali dovremmo trovare un nuovo modo di far convivere questi due modi del pensiero per traghettarci verso un maggiore livello di consapevolezza rispetto al significato del nostro essere al mondo non solo come singoli e comunità ma come parte di un sistema di interrelazioni più vasto e complesso di cui siamo parallelamente concausa ed effetto.
Secondo Heidegger: “l’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi. Infatti al giorno d’oggi, se si vuole conoscere qualcosa, si prende sempre la via più rapida e più economica e, una volta raggiunto lo scopo, nello stesso istante, altrettanto rapidamente, lo si è già dimenticato.” La cosa inquietante in tutto questo è che il pensiero calcolante pone l’uomo moderno in fuga dal pensiero, consegnandolo al dominio della tecnica, lasciando che sia lei ad agire e pensare al suo posto, trasformandolo de facto da agente ad agito. Ancora, a questo proposito, in una celebre intervista con lo Spiegel, Heidegger esplicita in maniera ancora più diretta il senso delle sue paure relativamente all’efficienza di questa azione di disumanizzazione spinta dal pensiero calcolante: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra. […] Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la terra quella su cui l’uomo vive (…)L’uomo dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e inerme, in balia dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo di oggi rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo, il pensiero meditante contro il pensiero puramente calcolante. Il pensiero meditante ci dà la possibilità di riflettere, (…) su ciò che, nell’epoca moderna, viene ad essere minacciato in misura crescente: il radicarsi stabile delle opere dell’uomo nel proprio terreno.”
“Perciò ora ci domandiamo: se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo?”; Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici? Forse ciò che cerchiamo con questa domanda si trova già vicino a noi, tanto vicino che neppure ce ne accorgiamo. Per noi uomini infatti la via che conduce a ciò che è vicino risulta sempre la più lunga e quindi la più difficile da percorrere.”
Ho cominciato a pensare che la relazione dicotomica ma imprescindibile tra queste due modalità del pensiero potesse essere rappresentata con un’immagine che, pur nella sua natura ossimorica, fosse in grado di descrivere questo rapporto come la costruzione di un percorso, come una strada che prende forma attraverso la dialettica tra il calcolante ed il meditante, come gli elementi strutturali di quella via lunga ed impervia che ci condurrà, come afferma Heidegger, a ciò che più vicino a noi. L’immagine prescelta sono le parallele convergenti.
Al fine di non indurvi in confusione, sarà bene chiarire che il concetto di parallele convergenti non ha nulla a che vedere con quello di convergenze parallele. Ne è l’opposto, ne ribalta il punto di vista, ne è l’antitesi teorica e pratica. Le convergenze parallele di cui parla Aldo Moro somigliano più ad un paradosso storico, ad una sorta di curvatura dello spazio-tempo sotto l’inaspettato peso di una necessità della storia. Non rappresentano una reale volontà di convergenza, ma l’emergere di un’urgenza, il manifestarsi di una condizione che, per quanto non auspicata da nessuna delle parti, rende necessaria una qualche forma di convergenza. Le parallele, tuttavia, nel caso di Moro, sono destinate a restare parallele, a non conoscere mai un punto di intersezione, condannate a priori a restare distinte, a mantenere il proprio status di alterità.
In questo caso, invece, le parallele convergenti rappresentano essenzialmente due linee disposte su un piano che nel loro svilupparsi davanti al nostro angolo visuale disegnano un percorso, una strada, un cammino. Due assi che, nell’inganno della prospettiva, convergendo, lontano, in un punto di fuga all’orizzonte tracciano una rotta, una traiettoria, un obiettivo. Come nel caso dell’utopia, poco importa in fondo se l’orizzonte equidistante si allontana indifferente ad ogni nostro passo, perché è cercando solo di raggiungere l’irraggiungibile che siamo stati e saremo in grado di avanzare dando un senso all’umana impresa. Ed è così che passo dopo passo siamo capaci di rendere possibile ciò che fino a ieri credevamo impossibile, ivi compreso, nel nostro caso, far convergere le parallele.
Infatti, è proprio nell’istante in cui le rette cominciano a convergere, cessando di essere parallele, che si compie la creazione. E’ proprio lì che intersecandosi costruiscono lo spazio innanzi a loro, spezzandosi in segmenti, formando angoli, divenendo lati che tracciano figure piane; figure che unendosi l’una all’altra costruiscono solidi; solidi che a loro volta si combinano tra loro permettendo a ciò che è lineare di divenire tridimensionale. E’ così che convergendo ed intersecandosi le rette frammentano l’infinito, rendendolo almeno in parte visibile all’uomo, rivelando ai nostri occhi porzioni crescenti di quel non tempo alle origini del tempo che è foce e sorgente di ogni cosa, offrendo al nostro sguardo finito la possibilità di immaginare ciò che ancora non esiste.
E forse è proprio in questo tipo di riflessioni che si cela quell’abbandono sereno delle cose alle cose in cui, cessando di opporci al cambiamento che il calcolo e la tecnica ci impongono, cessiamo di subire il divenire proprio delle cose per diventare parte attiva della creazione, guidati dal pensiero meditante alla ri-scoperta di una nuova Heimat. Una Heimat che poco a che vedere con il concetto di patria, ma che è più vicina al suo senso più intimo ed etimologico. Heimat deriva dal tedesco heim che significa casa, focolare, comunità. Una comunità umana in cui riconoscerci, da sentire prossima a noi. Una comunità fatta di relazioni, con cui condividere valori, progettualità e spiritualità. Una nuova casa a cui come uomini, insieme, dedichiamo ogni giorno il pensiero, un terreno fertile su cui tornare a radicarci, per seguitare a crescere rigogliosi e fiorire ancora una volta nell’etere.