Auto-organizzazioni. Auto come prefisso. Ma sostanziale.

 

Di seguito una riflessione scritta a quattro mani con Nicola Pirina, compagno di viaggio, amico fraterno, grande professionista ed esperto di innovazione e di organizzazioni. Buona lettura!

 

Il tutto è maggiore della somma delle parti.

Aristotele.

Negli anni precedenti alla sbornia delle .com, ere geologiche fa in termini socio economici, tecnologici ed aziendali, un saggio scrisse che quando il futuro è come il passato, ha senso organizzarsi secondo le consuete abitudini, ma quando inattese sorprese positive e caleidoscopici cambiamenti tecnologici si impongono all’ordine del giorno, è necessario trovare ed attuare strategie per gestire nuovi livelli di complessità. E, nonostante fosse del tutto inconsapevole di cosa sarebbe accaduto dal 1995 al 2021, aveva ragione. Non sarebbe stato facile prevedere quanto è accaduto in poco più di tre lustri e la rapidità con cui il cambiamento impresso dalla quarta rivoluzione avrebbe modificato le nostre vite. Men che meno sarebbe stato possibile prevedere una pandemia globale, né immaginare il come la stessa sarebbe stata gestita.

Normalmente non si pensava al 2030. Men che meno al 2050. Ahinoi.

Semplicità, stabilità, prevedibilità, equilibrio, proiezioni storiche. Continuità, abitudine, tradizione. Un costante riferimento a “su connottu” (in sardo, letteralmente, il conosciuto).

In questo modo si procedeva, di generazione in generazione. Così si faceva, semplicemente perché così si era sempre fatto. Non c’era bisogno di altre motivazioni per giustificare la sostanziale omeostasi e passività davanti al cambiamento.

 Tuttavia, è ormai opinione diffusa che gli assetti tradizionali siano definitivamente venuti meno. Non solo a causa della pandemia. O almeno questo è ciò di cui sembriamo volerci convincere. Più probabilmente tutto era già cambiato, solo che i più hanno continuato a far finta di nulla o più semplicemente non si erano accorti. Il che, se ci pensate bene, in fondo, si equivale. Buona parte di noi, in questo modo, finisce per non essere contemporaneo della propria epoca, continuando a cercare di interpretare il presente e a proiettare il futuro sulla base di schemi appartenenti al passato. E’ un po’ come nuotare contro corrente, il risultato dei nostri sforzi, per quanto prodighi di buone intenzioni, è uno ed uno soltanto, il più totale immobilismo. In altri termini, viene da dire che, nella comune percezione delle cose, sia ravvisabile un certo delay tra l’accaduto e l’accadente, tra l’elaborazione cosciente della storia e lo scorrere stesso delle nostre vite che la generano. Ed è proprio questo ritardo che ci spinge spesso a rincorrere gli eventi condannandoci alla gestione di un perenne stato di emergenza. Perché, come diceva Huxley: “facts do not cease to exist because they are ignored”, che ci piaccia o meno. 

Spesso si dice che ci siano persone in grado di vedere il futuro prima di chiunque, ma la verità probabilmente è un’altra. Quando parliamo di queste persone non parliamo di chiromanti, indovini o veggenti, ma semplicemente di individui che sono stati in grado di leggere compiutamente il loro presente e pertanto erano forse gli unici in condizione di costruire il futuro, perché, come spesso ripetiamo, il futuro è di chi lo fa. 

La crescente complessità del mondo in cui viviamo e la forte accelerazione dei processi di cambiamento impressi dalla quarta rivoluzione nello scorrere di poche decadi, sembrano quasi incompatibili con i tempi necessari ai grandi cambiamenti sociali e culturali. La gestione di un così alto livello di complessità infatti mal si sposa con la quasi reazionaria difesa del proprio (delle volte poco confortevole) stato di confort, viceversa richiede un altissimo grado di adattatività, che non può e non deve più limitarsi  semplicemente allo studio storico statistico del passato o alle mere analisi di scenario. 

In tutto questo processo, le organizzazioni, ovviamente, non fanno eccezione. Anch’esse, se vogliono sopravvivere, devono per forza cambiare, non solo nel modo e quindi nelle rispettive logiche interne e di relazione con l’esterno, ma anche nella forma. Perché nel caso delle organizzazioni, potremmo dire che forma e sostanza spesso si equivalgono.

Sarà fondamentale, pertanto, creare le condizioni affinché organizzazioni rigide e piramidali possano gradualmente aspirare a divenire auto organizzazioni, consapevoli del fatto che il miglior governo, parafrasando T. Jefferson, è chiamato a governare il meno possibile, poiché ha creato le condizioni ideali affinché siano gli stessi individui a governare se stessi in una logica di orizzonti e obiettivi comuni, ponendo le basi per un’indispensabile coscienza del noi, fondamento imprescindibile della creazione di quella che comunemente viene definita realtà sociale. 

Le evidenze che arrivano dagli studi scientifici ci dicono che a livello biologico i cosiddetti processi di autoorganizzazione, poste determinate condizioni, tendano a verificarsi in modo del tutto spontaneo, difatti questo è quello che accade negli ecosistemi complessi in natura, in cui molto spesso sistemi di autorganizzazione ad un livello inferiore si incontrano e si coordinano per generare sistemi di autorganizzazione ad un livello superiore (pensate ad esempio al micelio).

Ma la nostra riflessione di oggi, per questioni di brevità, si limiterà a portarci ad interrogarci su un punto. I sistemi auto-organizzativi, possono nascere anche nell’ambito delle organizzazioni? Tale processo può anche essere indotto? E ancora, l’imprenditore o il professionista, il dirigente o il manager possono stimolare le persone e le organizzazioni per fare in modo che le precondizioni di cui sopra si avverino? E se sì, è una strada auspicabile per le organizzazioni negli attuali e prossimi scenari produttivi e di mercato?

Fosse sfuggito al lettore, la nostra opinione a riguardo è senza dubbio positiva, a patto che i capitani d’azienda abbiano la forza e il coraggio di iniettare tutta l’energia necessaria a che le organizzazioni inserite nei nuovi sistemi complessi trasformino la propria adattività (e quella degli individui che le compongono) in autoorganizzazione mantenendo alti livelli di efficienza, limitando le dispersioni e tenendo a mente chiari gli obiettivi, il tutto senza perdere l’essenza della propria resilienza e capacità di modificarsi nel tempo.

Ma a cosa serve tutta questa energia? Di che energia stiamo parlando? Come e dove andrebbe canalizzata?

 

Procediamo per gradi.

Come prima cosa, ogni dipendente, ogni dirigente, ogni componente di un team deve diventare responsabile di sé stesso, imparando anche a coesistere con gli altri individui che lo compongono e che, esattamente come lui, devono assumere il medesimo mindset ed atteggiamento operativo. Tutti debbono imparare ad operare in modo informale e ad agire sugli elementi intangibili, condividere valori e cultura personali ed aziendali, socializzare codici di relazione reciproca e linguaggi.

Così come gli individui, neanche le imprese sono monadi. Così non lo sono neppure i manager, gli azionisti e i lavoratori che le compongono, mai hanno potuto permettersi di esserlo, men che meno potranno permettersi di esserlo in futuro in un mondo sempre più caratterizzato dalle relazioni e quindi da interdipendenze.

In questa chiave, le imprese in quanto tali, inquadrate come sommatoria positiva di tutte le persone che le animano, interagendo, devono tendere a costituire sistemi interconnessi ed ecosistemi di ecosistemi, come in natura, debbono ragionare in assenza di confini geografici ed amministrativi, per orizzonti indistinti, permeabili, valicati da flussi liberi di informazioni ed idee, devono generare interconnessioni forti per correlare gli elementi endogeni ed esogeni, devono essere in costante evoluzione mediante meccanismi di cooperazione e competizione.

In una visione ecosistemica, la cooperazione non può essere relegata ad una confederazione o ad altro sistema associativo, deve essere aperta e permanente, proattiva e dinamica, mai autoreferenziale.

 

Andiamo avanti.

L’aggettivo complicato viene da cum-plicare, ossia vuole rappresentare un insieme caratterizzato da gradi di difficoltà scioglibili presupponendo un paradigma riduzionista (in breve – perdonate l’estrema semplificazione – un problema complicato può essere risolto scomponendolo in tanti problemi più semplici, le cui soluzioni, sommate portano alla soluzione del problema di partenza). Il termine complesso invece deriva dal latino cum-plexere, che significa letteralmente tessuto insieme, un intreccio, un unicum non divisibile. Quando ci approcciamo ad un sistema complesso ci riferiamo ad un sistema non lineare, composto di molti elementi collegati tra loro e dipendenti uno dall’altro, non riducibile , non ripetibile né prevedibile, senza più nessun rapporto lineare di causa-effetto.

Nei sistemi complessi, le interazioni tra le diverse parti che compongono il problema, non potranno che essere analizzate nel loro insieme in maniera sistemica. Il nostro approccio alla complessità non può pertanto prescindere dal tenere saldamente a mente che sono le interconnessioni ad essere, al contempo, struttura e chiave interpretativa del sistema. Lo stesso avviene per le organizzazioni chiamate a gestire problemi complessi puntando a divenire auto organizzazioni, perché uno dei fattori chiave nel loro successo è che tutti giochino lo stesso gioco con le stesse regole. Se infatti dovesse venire a mancare questo elemento si finirebbe per ricadere in modelli gestionali pregressi, magari con un brillante passato di successi e conferme alle spalle, ma certamente inadeguati rispetto alle mutate condizioni del mondo cui viviamo.

Per riassumere questo concetto possiamo affermare che un’auto organizzazione produrrà tanto più valore, quanto più valore ciascuno dei partecipanti sarà in grado di portare a sé stesso, ai suoi colleghi e all’organizzazione nel suo complesso, contribuendo in maniera coordinata, ciascuno per il suo, al raggiungimento di obiettivi comuni.

A questo punto potrebbe venire da chiedersi se in tali modelli auto-organizzativi finiscano per venir meno totalmente la gerarchia e l’importanza dei ruoli apicali aziendali.

La risposta chiaramente è no, ma di certo anch’essi si evolveranno in qualcosa di nuovo. Le autoorganizzazioni non sono orizzontali o verticali, ma rappresentano una visione multidimensionale, in cui non cambia solo il ruolo dei manager, ma anche e soprattutto le modalità di interrelazione tra le parti coinvolte.

Gestire un’auto-organizzazione non significa maneggiare un oggetto privo di progetto, bensì che l’organizzazione formale dovrà essere in grado di modificarsi, rideclinarsi e completarsi in armonia con gli assetti informali che devono provenire spontaneamente dai singoli partecipanti all’organizzazione stessa, creando un organismo in costante divenire, adattivo, resiliente e antifragile. 

Parliamo di aumento della discontinuità, di interazioni spontanee tra le parti costituenti, di infinite possibilità e combinazioni, esattamente come avviene nel cervello con neuroni e sinapsi. Nodi e link di una rete in grado di riconfigurarsi, di trovare nuovo percorsi e nuove connessioni, di riprogrammarsi, di auto-apprendere, di auto-ripararsi.

Modelli organizzativi reticolari, agili, flessibili, naturalmente orientati alla resilienza, alla generatività e alla creatività, al libero scambio di informazioni, energia e risorse, il cui controllo è distribuito, demandato all’intero sistema stesso.

Non si tratta tuttavia di un lasciar fare diffuso, non è “la casa delle libertà” dove ognuno fa quello che gli pare, come diceva quel celebre comico.

Creare le condizioni per l’autoorganizzazione, a livello manageriale, significa impegnarsi nel guidare l’evoluzione dei comportamenti e delle interazioni invece che specificare i comportamenti effettivi in anticipo, significa delega di potere e di autorità, significa leadership diffusa e diffusione dell’autorevolezza, significa controllo distribuito tra le parti e il vertice, responsabilità diffuse, decentralizzazione, interdipendenza, ogni parte deve possedere le informazioni necessarie ed essere responsabile per i propri risultati e per quelli dell’organizzazione nel suo complesso.

Allo stesso modo questo non significa smettere di pianificare ma piuttosto non farsi imbrigliare da un piano, perché se come diceva Eisenhower “plans are worthless, but planning is everything”, bisogna aver chiaro il punto d’arrivo e il percorso che ci conduce a raggiungerlo ma al contempo si deve avere il coraggio e la consapevolezza di cambiar strada se e quando è necessario. 

La piena responsabilità sui risultati incoraggia ad agire in prima persona, spingendo le persone ad assumersi anche dei rischi e sperimentando consapevolmente in una impresa che tollera, entro certi limiti, l’errore in quanto momento fondamentale dell’apprendimento.

La fiducia e la collaborazione indirizzata a uno scopo comune rappresentano gli elementi coagulanti, i presupposti indispensabili per determinare processi di interazione cooperativa.

 

Ma andiamo oltre. 

Cosa permette questa chimica umana e aziendale?

E’ il territorio, quale milieu, che permette all’intelligenza distribuita di emergere in quanto intelligenza connettiva, svolgendo funzione di telaio relazionale prima e comunicativo poi, capace di integrare le intelligenze individuali per farle diventare interconnesse e interdipendenti affinché possano divenire parti in un unico apparato pensante attraverso cui far emergere anche nelle organizzazioni (e nelle organizzazioni di organizzazioni) quella che Proudhon definisce forza collettiva. La forza collettiva, afferma Proudhon, non è la semplice somma delle forze individuali. Pensateci bene, ciò che produce la divisione del lavoro non è la semplice accelerazione di un lavoro che un solo individuo potrebbe produrre, ma presuppone delle competenze e dei talenti diversi che un solo uomo da solo non potrebbe riunire. Ed è proprio la connessione, l’interazione, la relazione tra questi talenti a rappresentare il vero valore aggiunto: l’intero supera la somma delle parti. Ma anche i talenti dei singoli, prosegue Proudhon, sono in gran parte il prodotto della solidarietà e della forza collettiva della società (o nel nostro caso delle organizzazioni), inserendo l’intero processo in un moto circolare di relazione tra il tutto e le parti.

In questo senso, potremmo estendere il concetto e definire il territorio come quell’intero, superiore alla somma delle parti, che racchiude il capitale economico ed umano di tutti i soggetti che si è in grado di mobilitare a proprio vantaggio e a vantaggio della propria comunità. Ciascun territorio è legato a un ciclo di relazioni stabili che definiscono l’appartenenza dei singoli a un gruppo di agenti dotati di proprietà comuni, uniti da legami forti e da bisogni e fini comuni. Questo vale tanto per i singoli territori e comunità che, ad un livello più alto, ai legami indispensabili tra territori e comunità diversi. Più il livello di consapevolezza di interdipendenza sarà alto, maggiori saranno le possibilità di perseguire, in quanto esseri umani, obiettivi e visioni di futuro comuni, alleviando i contrasti e riconoscendo, esattamente come avviene negli ecosistemi naturali, la diversità come un valore fondamentale per l’equilibrio e il benessere di tutti.

Rebus sic stantibus, all’interno delle organizzazioni, evolverà anche il concetto di comando. Sarà fondamentale essere in grado di delegare seguendo semplici regole di base al fine di far emergere le capacità intellettuali, operative, emotive, emozionali dei singoli, incentivando lo scambio e la condivisione della conoscenza, attivando attraverso il moltiplicarsi delle sinapsi interne all’organizzazione quei meccanismi  di moltiplicatore propri dei sistemi reticolari, secondo una dinamica di cooperazione e competizione sia all’interno che all’esterno dell’impresa.

Affinché i collaboratori si prendano responsabilità e possano agire, occorre che chi “comanda” sia disposto a condividere gradualmente non solo parte delle proprie responsabilità ma anche parte del proprio potere. Infatti, nella misura in cui i collaboratori sono autorizzati a decidere e sono chiamati ad essere responsabili delle loro scelte, l’esercizio del potere da parte di chi è chiamato a “comandare” deve anch’esso cambiare forma. Non si tratta quindi di una perdita di potere o uno scarico di responsabilità dal centro alla periferia. Centro e periferia ne condividono oneri e onori. Questo nuovo assetto pertanto non è abdicazione di potere, né una mera condivisione di quest’ultimo, ma una radicale trasformazione del concetto stesso di potere per come siamo soliti intenderlo, potere che nella sua distribuzione armonica e non eterodiretta diviene volontà collettiva capace di stimolare la creatività, la motivazione e l’entusiasmo di cui tutte le organizzazioni hanno bisogno per prosperare.

Per cui, più che di comando, potremmo quasi parlare di direzione d’orchestra, di una spinta gentile che mira alla creazione di una regia invisibile e distribuita, in cui imprenditori e manager sono chiamati a prestare attenzione anche a ciò che emerge dai propri collaboratori, dal personale di linea, dagli attori esterni. Il manager non dovrà più dedicarsi al classico esercizio di pianificazione e controllo delle attività perché la sua occupazione principale sarà quella di creazione e presidio del contesto organizzativo. Un contesto in cui la vera motivazione è l’auto-motivazione, frutto di una visione  e di una purpose aziendale condivisa.

Siamo consapevoli che non si tratti di percorso semplice e privo di insidie. Come abbiamo accennato, una autoorganizzazione implica la possibilità per le persone di prendersi dei rischi e di sbagliare, richiede una tolleranza all’errore sicuramente più ampia rispetto ai modelli gerarchici a cui siamo abituati. Tuttavia, esattamente come le persone non smettono di imparare finché vivono, così le organizzazioni restano in vita finché non smettono di imparare. 

Autoorganizzazione significa quindi avviare un processo condiviso con il fine di raggiungere un obiettivo comune, identificando il percorso più efficiente per farlo, conoscendo e riconoscendo le competenze, le conoscenze e le risorse disponibili. Tale cammino richiede una sperimentazione attiva in termini di approccio, con aggiustamenti continui e la capacità di capitalizzare gli errori e distillare lezioni utili da tutti i fallimenti. Richiede che i membri del team siano posti in condizione di stabilire e raggiungere traguardi sfidanti ma raggiungibili. Anche in questo caso, infatti, la definizione di obiettivi realistici è la base del successo.

Abitudini di comunicazione. Riunioni brevi e regolari. Tutti devono avere la possibilità di parlare e soprattutto d’essere ascoltati con attenzione.

Mai scaricare la colpa sugli altri. Non solo i successi ma anche i fallimenti sono sempre collettivi e sono parte imprescindibile di un sano processo di creazione e innovazione. L’autoorganizzazione implica grande capacità critica e autocritica, ogni membro del team deve essere sempre pronto a riconoscere i propri errori, poiché non riconoscere i propri errori o quelli dell’organizzazione incrementa la possibilità di ripetere lo stesso sbaglio in futuro. Ognuno di essi, deve essere supportato nella propria crescita personale e professionale e messo in condizione di supportare gli altri, in breve ciascuno deve essere aiutato a trovare il proprio spazio nell’organizzazione. Uno spazio di lavoro e creazione condiviso in cui tutti sono fondamentali ma in cui nessuno è indispensabile.  Un meccanismo virtuoso capace di creare le condizioni ideali affinché il gruppo, lavorando in sinergia, possa iniziare a intravedere soluzioni e opportunità, laddove i singoli da soli avrebbero visto solo problemi e difficoltà.

Miglioramento continuo e organizzazioni auto-apprendenti, sono l’obiettivo cardine dell’aziende di oggi e di domani perché la capacità di impresa di assimilare nuove competenze e di produrre nuove conoscenze sono gli elementi chiave che consentono a un’azienda di rimanere competitiva e di agire il cambiamento piuttosto che subirlo ed esserne agita.

 

Per concludere.

Nel mondo dell’e-omnia, le aziende stanno scoprendo sempre più che le organizzazioni tradizionali stanno perdendo di efficienza e di efficacia o quantomeno sembra oramai chiaro a tutti che potrebbero non esserlo sempre, ovunque e a prescindere dall’oggetto, come in molti fino a poco tempo fa erano portati a pensare. La gerarchia, infatti, significa molto poco in un ambiente in cui il dipendente più umile può saltare l’organigramma con un solo click. Probabilmente, dipendenti e partner motivati ​​da uno scopo comune e socialmente abilitati ad agire costituiranno il tipo di organizzazione che meglio potrebbe adattarsi alle sfide che tanto il presente e quanto più il futuro ci pongono davanti.

E voi, cosa state facendo per preparare voi e le vostre organizzazioni a gestire questa mole crescente di complessità? 

Organizzate regolarmente conversazioni aperte con i colleghi? Stimolate i colloqui informali? Siete onesti intellettualmente e deontologicamente nelle discussioni e nei confronti? Scambiate informazioni in maniera strutturata?

Se sì, siete a buon punto per creare una cultura della fiducia, pilastro insostituibile delle nuove organizzazioni. 

Come vi assicurate che nessuno stia rallentando o frenando di proposito le azioni? Semplicemente confidando che tutti facciano del loro meglio e agiscano per il bene dell’azienda?

Trovate il vostro modus operandi, non esistono ricette preconfezionate.

Autoorganizzazione significa credere che non ci siano modelli organizzativi standard o idee preconcette su come organizzarsi e rimanere auto organizzati. Ogni struttura dovrà elaborare le proprie pratiche, adattarle al proprio contesto ed essere sempre pronta alle sorprese. Non mancheranno.

Sicuramente il consiglio che molto umilmente ci sentiamo di dare agli imprenditori e ai manager di domani interessati all’autoorganizzazione è quello di avviare il processo a partire dall’implementazione di dinamiche organizzative semplici, in grado però, fin da subito, di fornire risposte complesse. Se sarete capaci di mutare la vostra forma mentis e di abbandonare gli schemi mentali pregressi, imparando anche a disimparare quando è necessario, la vostra organizzazione comincerà pian piano a mutare e ad auto regolarsi e vedrete come risultato il graduale formarsi di un processo dinamico basato sulle interazioni tra le parti costituenti e (quasi) privo di un controllo centralizzato. A questo punto il sistema sarà in grado di riorganizzarsi da solo, gli attori troveranno in autonomia la nuova configurazione dotata di proprietà diverse rispetto alle sue componenti di partenza. Questo ovviamente non significa non governare il processo o abbandonarlo a se stesso, ma al contrario significa muoversi costantemente al fine di mantenere l’equilibrio nell’organizzazione in funzione degli input e degli output che inviamo dall’interno verso dall’esterno e viceversa. 

Come detto non abbiamo ricette da sottoporre. Quel che è certo è che, se le avrete ben istruite e formate in merito, se le avrete responsabilizzate e valorizzate, ciascuna delle risorse della vostra organizzazione farà la sua parte e stimolerà le altre a continuare a fare altrettanto.

I componenti dell’organizzazione, a questo punto, saranno non solo interconnessi tra loro, ma saranno incentivati a loro volta a mettere a disposizione dell’organizzazione le proprie reti sociali, collegate a loro volta ad altri gruppi, a reti e a reti di reti e così via. Ognuno di loro diverrà un hub capace di garantire costantemente un interscambio positivo con l’esterno sfruttando al massimo l’effetto dei nodi fortemente connessi nel proprio grafo relazionale al fine di creare valore condiviso. 

In questo modo il tutto può diventare maggiore della somma delle parti: valori e creazione di valore sono concetti fortemente legati. La catena del valore non è fissa, bensì mutevole, i partner possono cambiare, i consumatori possono diventare co-produttori, i fornitori di oggi possono diventare clienti domani, le competenze che oggi costituiscono il cuore del proprio vantaggio competitivo possono servire domani da semplice commodity.

 

Ma ora, scusandoci per esserci forse troppo dilungati, chiudiamo il ragionamento.

 

Andare a caccia di innovazione non consiste nel brandire stregonerie.

L’innovazione organizzativa è frutto di cultura personale ed aziendale, è figlia poi dell’olio di gomito di chi vuole realmente vederla attuata a casa propria.

Auto organizziamoci nel senso più nobile e diffuso del concetto.

I prossimi futuri ci aspettano a braccia aperte e il futuro, come disse qualcuno, non può che interessarci tutti perché è lì trascorreremo il resto della nostra vita.