Inventare il futuro: pensare l’innovazione

Breve premessa

Io e Nicola Pirina, oltre che grandissimi amici, siamo stati e siamo ancora oggi compagni di avventura in numerosi progetti di frontiera. Nel nostro ventennale viaggio attraverso il dinamico mondo dell’innovazione, l’incontro con il Prof. Silvano Tagliagambe ha segnato una svolta fondamentale. Nicola ed io, abbiamo avuto in tutti questi anni (e speriamo di avere ancora a lungo) l’immenso piacere e privilegio di lavorare a stretto contatto con una delle menti più brillanti e influenti nel campo della filosofia della scienza, una persona dotata di un’umiltà ed una umanità straordinarie, con una cultura vastissima e profonda e una capacità di sintesi e visione impareggiabili.
In questo articolo, scritto a sei mani, con l’impagabile contributo del Prof. Tagliagambe, pur negli evidenti limiti in termini di trattazione di post su un blog, abbiamo cercato di riassumere perché e in che modo, a nostro parere e per la nostra esperienza, l’approccio proprio della filosofia della scienza continui ad offrire un contributo fondamentale nell’affrontare le grandissime sfide che la contemporaneità ci pone ogni giorno davanti, con una visione rinnovata e una consapevolezza e profondità indispensabili. 

In questo contesto, la filosofia della scienza non solo emerge come un terreno di dialogo fra discipline, ma anche e soprattutto come la chiave di volta per un approccio all’innovazione capace di allineare il progresso tecnologico con quelli che riteniamo essere i valori umani fondamentali, guidandoci verso un futuro in cui l’avanzamento tecnologico vada di pari passo con la sostenibilità ambientale e con la crescita umana e sociale.

Siamo fermamente  convinti  che l’innovazione, per essere autentica e di impatto, abbia bisogno di passare attraverso la lente della filosofia della scienza, intesa non tanto come disciplina di studio in sè e per sè ma intesa proprio come esercizio della stessa, come metodo, come forma mentis, come categoria del pensiero. 

Una sorta di bussola etica capace di aiutarci ad orientare i nostri passi tra le complessità del progresso tecnologico; un pilastro concettuale irrinunciabile per supportarci nel  forgiare soluzioni tecnologiche più consapevoli degli effetti di lunga durata, più responsabili nei confronti dell’ambiente, delle persone e delle generazioni future, insomma, non soluzioni prone al dictat economicista e proiettate verso un’insensata crescita senza fine dei profitti di pochi, ma profondamente orientate verso un equilibrio sostenibile e al benessere di tanti.

Perché facciamo le cose insieme ovvero perché, a nostro parere, la filosofia della scienza dovrebbe essere uno dei pilastri dell’industria dell’innovazione.

La filosofia in generale, e più nel dettaglio quella sua branca che prende il nome di filosofia della scienza, è una disciplina di fondamentale importanza nell’evoluzione del pensiero umano, perché va ad impattare in maniera significativa proprio sul modo in cui interpretiamo e comprendiamo – in entrambi i sensi del termine – la conoscenza, la realtà, l’esistente e la nostra stessa esistenza.

La filosofia intesa come un approccio critico e analitico all’esistenza e all’esistente, al reale e al possibile, al virtuale e all’attuale, trova applicazione in vari aspetti della vita quotidiana e del pensiero. Nel corso della storia ha guidato l’umanità nel comprendere non solo ciò che conosciamo, ma anche le modalità attraverso cui arriviamo a conoscere. Questo riguarda le metodologie, le teorie, la logica e il processo critico che stanno dietro alla scoperta scientifica e all’acquisizione della conoscenza.

Attraverso i suoi principi, abbiamo imparato a mettere in discussione le nostre supposizioni e i nostri pregiudizi (nel senso Gadameriano del termine), a testare le nostre ipotesi e a comprendere meglio la struttura stessa della realtà. Questo approccio ha portato alla valorizzazione della prova empirica e della sperimentazione, fondamentali per il progresso scientifico e per il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, sia in termini materiali che socio-culturali.

La filosofia della scienza, contemporaneamente, ha influenzato il nostro modo di percepire la nostra esistenza, il nostro essere al mondo. I dibattiti su temi come il determinismo e il libero arbitrio, la natura della coscienza e la nostra visione dell’universo e del mondo in cui “siamo stati gettati”, hanno arricchito la nostra comprensione e interpretazione dell’umana esistenza, del suo scopo profondo e del nostro rapporto con il mondo che ci circonda.

La filosofia è il nostro modo di interrogare noi stessi e il mondo, non a caso, storicamente, ha preceduto molte discipline scientifiche moderne, gettando le basi concettuali e metodologiche per il loro sviluppo successivo. Prima che emergessero come scienze autonome, la filosofia ha investigato e preparato il terreno per ambiti come la matematica, la fisica, la medicina, la chimica, l’economia e molti altri campi del cosiddetto sapere scientifico.

Essa fornisce un framework per affrontare problemi complessi e per applicare un pensiero critico nelle decisioni quotidiane. In settori come la medicina, l’ingegneria e la tecnologia, un approccio filosofico può aiutare a navigare dilemmi etici, a prevedere le conseguenze delle nuove scoperte e a sviluppare tecnologie innovative in modo responsabile.

La filosofia in generale e la filosofia della scienza in maniera particolare non rappresenta quindi solo una disciplina di studio ma è più propriamente un modo di pensare, un metodo, un approccio critico e analitico che arricchisce il nostro modo di vedere il mondo, migliorando il modo in cui viviamo e interagiamo con la realtà che ci circonda.

La filosofia della scienza, infatti, si occupa di diverse questioni fondamentali che esplorano la natura, i metodi e i limiti della scienza stessa. Come affermato da Richard Feynman: “La filosofia della scienza si occupa delle domande semplici che non hanno ancora risposta. Una questione fondamentale è: Come facciamo a sapere? Qual è il processo attraverso cui acquistiamo conoscenze del mondo?” e ancora “L’essenza dello spirito scientifico è uno spirito critico, non critica cieca ma critica con prontezza a essere corretti. In questo risiede la filosofia della scienza: la disposizione ad ascoltare obiezioni critiche, ad essere eternamente dubbiosi di quanto si ritiene già essere consolidato.”. Non a caso, una delle sue domande centrali è: che cos’è la scienza?.

Albert Einstein sottolineò l’importanza di questa domanda anche per i cosiddetti non addetti ai lavori. Il celebre fisico, padre della relatività, era solito affermare che: “la scienza non è altro che un rifinimento del pensiero quotidiano”.

Con questa affermazione, Einstein intendeva sottolineare quanto abbiamo già più volte sottolineato, ovvero come la scienza non sia distante o disgiunta dalla realtà quotidiana e dall’esperienza comune, ma ne sia piuttosto un’estensione critica e sistematica.

Il pensiero quotidiano, con cui si affrontano le questioni pratiche della vita di ogni giorno, è basato su alcuni capisaldi dell’agire scientifico: sull’osservazione, sull’intuizione, sul ragionamento, certo nella nostra quotidianità tutto avviene su un piano informale, ma Einstein sembra suggerire che in fondo la scienza faccia lo stesso, che prenda questi elementi basilari del pensare umano e li elevi a un livello più rigoroso e metodico. In altre parole, la scienza affina e sistematizza il pensiero umano attraverso l’uso di metodi scientifici che includono l’osservazione precisa, l’esperimento controllato, e la formulazione di teorie basate su dati empirici.

La domanda “Che cos’è la scienza?” apre quindi alla riflessione su come l’approccio scientifico sia un modo per organizzare la curiosità innata dell’uomo e la sua capacità di interrogarsi sulla realtà che lo circonda, per arrivare a comprensioni sempre più precise e affidabili. Ed è proprio questa sua capacità di interrogarsi a rivestire un ruolo fondamentale in quella che chiamiamo filosofia della scienza.

Un aspetto cruciale esaminato dalla filosofia della scienza riguarda i meccanismi attraverso cui avvengono i cambiamenti rivoluzionari di paradigma nella pratica scientifica. Come osservato dal fisico Max Planck: “La nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendoli vedere la luce, ma piuttosto perché, alla fine, sono cresciuti pensatori che sono stati istruiti in essa”; è quindi molto spesso proprio ricambio generazionale degli scienziati a permettere l’affermazione di nuove idee dirompenti. I giovani ricercatori, formati sin dall’inizio sui nuovi concetti rivoluzionari, possono più facilmente abbracciare questi nuovi paradigmi senza essere vincolati dalle teorie obsolete del passato. La loro mente è essenzialmente una “tabula rasa” su cui i principi innovativi possono essere impressi senza le barriere concettuali ereditate dai vecchi modi di pensare.

Ed è proprio attraverso questo continuo rinnovamento, questa eterna correzione di bozze, attraverso cui avanza il pensiero scientifico che la filosofia della scienza offre una guida svolgendo un ruolo cruciale nell’affrontare le questioni etiche e sociali sollevate dalle nuove scoperte scientifiche e dalle loro applicazioni pratiche. Esplorando le implicazioni morali, politiche ed esistenziali della ricerca scientifica, essa contribuisce a garantire che il progresso scientifico avvenga in modo consapevole, responsabile e rispettoso dei valori umani fondamentali.

Impatto delle teorie filosofiche sull’innovazione

Le teorie filosofiche della scienza hanno pertanto un impatto significativo sull’innovazione, influenzando il modo in cui le nuove tecnologie vengono sviluppate, comprese e integrate nella società, spingendoci a riflettere sulle minacce e sulle opportunità che derivano dalla loro adozione e di quanto modalità di adozione differenti della stessa tecnologia possano portare a risultati molto diversi tra loro, talvolta opposti. Questo impatto si manifesta in diverse aree, dalla formulazione di nuove idee alla gestione delle sfide etiche e pratiche che emergono con il progresso tecnologico.

Naturalmente, la filosofia della scienza influisce sulla comprensione di come le teorie scientifiche si evolvono. Il filosofo della scienza americano Thomas Kuhn, nella sua opera fondamentale “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” del 1962 ha introdotto il concetto di “cambio di paradigma”.

Un paradigma è un modello, un insieme di teorie, metodi e valori condivisi da una comunità scientifica in un determinato periodo storico e rappresenta il modo in cui quella comunità vede e interpreta il mondo.

Secondo Kuhn, lo sviluppo della scienza non procede in modo lineare e cumulativo, ma attraverso periodi di “scienza normale” intervallati da rivoluzioni o “cambi di paradigma”.

Durante la “scienza normale”, i ricercatori lavorano all’interno del paradigma dominante, risolvendo rompicapi ed enigmi compatibili con quel paradigma. Man mano che emergono anomalie e problemi irrisolti, il vecchio paradigma entra in crisi.

A un certo punto, un nuovo paradigma alternativo viene proposto e, se accettato dalla comunità scientifica, nelle nuove generazioni – esattamente come osservato da Max Planck – sostituisce il vecchio provocando un cambio di paradigma rivoluzionario, generando in tal modo un cambiamento radicale nella visione del mondo e nelle pratiche della scienza.

Così, se da un lato, per Kuhn le rivoluzioni scientifiche possono essere descritte come spostamenti non lineari da un modo di vedere il mondo a un altro incompatibile con il precedente, allo stesso modo, l’innovazione, quella vera vera, non può essere incrementale o lineare, bensì procede attraverso cambiamenti radicali e dirompenti che rimettono in discussione le conoscenze e le pratiche consolidate. Le idee veramente innovative richiedono un cambio di paradigma, una nuova prospettiva che rivoluziona il modo in cui vediamo e affrontiamo le sfide in un determinato campo.

Le teorie di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche e i cambiamenti di paradigma offrono agli innovatori, o aspiranti tali, importanti spunti per coltivare il pensiero divergente, cruciale per l’innovazione. Innanzitutto, spingono a rimettere in discussione le assunzioni e i modi di pensare dominanti, incoraggiando a “uscire dai sentieri battuti” ed esplorare prospettive alternative che superino i limiti dei paradigmi esistenti. Un atteggiamento di apertura mentale e disponibilità a scartare le “verità accettate” è essenziale per il pensiero divergente. Non bastano piccoli miglioramenti incrementali. Occorre invece abbracciare visioni completamente nuove, divergendo dalle traiettorie consuete. Questo stimola a generare idee originali che si discostano dai modelli convenzionali. Questo tipo di approccio mostra l’importanza di considerare molteplici interpretazioni e prospettive alternative sui fenomeni, tutti elementi chiave del pensiero divergente, del cosiddetto pensiero laterale e di qualsiasi processo di innovazione che ambisca dirsi tale.

Le teorie di Kuhn sfidano la mentalità ancorata allo status quo e incoraggiano un approccio aperto, critico e non convenzionale – tutte qualità necessarie per coltivare un pensiero divergente fecondo di innovazioni dirompenti e capaci di rivoluzionare i paradigmi consolidati.

Scienza, progresso tecnologico e principio di responsabilità

Come già introdotto in apertura, uno degli ambiti cruciali di applicazione della filosofia della scienza è proprio lo studio e il confronto rispetto alle questioni etiche e sociali legate al progresso scientifico e tecnologico. Con l’innovazione che procede a un ritmo esponenziale finora inedito nella storia, in campi come l’intelligenza artificiale, la biotecnologia e la nanotecnologia, emergono interrogativi etici sempre più complessi e pressanti, che mettono a dura prova la nostra capacità di analisi, comprensione e giudizio. La filosofia della scienza fornisce gli strumenti concettuali e metodologici indispensabili per affrontare con maggiore profondità e consapevolezza queste sfide, aiutando gli innovatori e la società intera a navigare in modo più responsabile e sostenibile attraverso una realtà tecnologica sempre più pervasiva e interconnessa.

Se dotati di una solida formazione filosofica e degli strumenti critici di analisi che essa offre, gli innovatori possono acquisire una maggiore consapevolezza di come le loro invenzioni influenzino e siano a loro volta influenzate da fattori sociali, culturali ed etici. Questo può guidare lo sviluppo di tecnologie non solo avanzate da un punto di vista tecnico, ma anche più desiderabili, accettabili e utili per la società nel suo complesso.

L’integrazione di prospettive filosofiche nel processo di innovazione promuove quindi un approccio più olistico e responsabile. Alimenta una riflessione critica sui fini ultimi e sugli impatti a lungo termine dell’innovazione tecnologica, andando oltre la mera focalizzazione sugli aspetti tecnici e commerciali a breve termine. Questo consente di sviluppare soluzioni capaci di creare valore durevole e sostenibile, sia per gli individui che per la società.

La filosofia della scienza gioca quindi un ruolo cruciale nell’innovazione, fungendo da bussola etica e concettuale per navigare le complesse implicazioni del progresso tecnologico. Incorporando questa disciplina nei processi di ricerca, sviluppo e innovazione, possiamo guidare il cammino verso soluzioni tecnologiche più consapevoli, responsabili ed equilibrate.

Infatti, se come affermava il biologo Theodosius Dobzhansky, “nulla in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione.”, allo stesso modo potremmo dire che nulla nell’innovazione tecnologica ha veramente senso se non viene letto e filtrato attraverso la lente della filosofia e dell’etica. 

Queste ultime non si limitano, infatti, a fornire gli strumenti concettuali per comprendere criticamente l’impatto delle nuove tecnologie, occupandosi non solo dei metodi della ricerca, ma anche delle conseguenze sociali, ambientali e culturali dell’innovazione. Questo include il valutare come le nuove tecnologie influenzino la vita quotidiana, le dinamiche di potere, i valori condivisi. L’intelligenza artificiale e l’automazione sollevano questioni sul lavoro, la privacy, la sicurezza che richiedono un’analisi etica approfondita. permettendoci di anticipare dilemmi etici non immediatamente evidenti. 

Spesso, infatti, le innovazioni portano conseguenze impreviste che vanno oltre le intenzioni originali. Per questo la filosofia della scienza promuove un dialogo critico e interdisciplinare tra scienziati, ingegneri, filosofi, politici e pubblico. Questo dialogo rappresenta un elemento  imprescindibile per garantire che l’innovazione sia guidata non solo dal progresso tecnico, ma anche da valori etici condivisi, offrendo un terreno comune per una comprensione olistica delle sfide morali emergenti. 

Un celebre esempio che illustra alla perfezione questa necessità è la crisi esistenziale vissuta dal fisico J. Robert Oppenheimer dopo lo sviluppo della bomba atomica. Oppenheimer, che aveva diretto il Progetto Manhattan, rimase profondamente scosso dalle devastanti conseguenze  delle sue ricerche scientifiche. Dopo i primi test in New mexico e in seguito dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, comincio a riflettere sulle terribili implicazioni morali dell’arma che aveva contribuito a creare.

In un’udienza di sicurezza nel 1954, citò il Bhagavad Gita: “Ora sono diventato la Morte, la distruttrice di mondi”. Queste poche parole rappresentano una sintesi perfetta dello stato d’animo dello scienziato, evidenziando il rimorso e il peso etico che gravava su Oppenheimer per aver sbloccato un tale potenziale distruttivo. La sua crisi personale mise in luce la necessità per gli scienziati di considerare le vaste conseguenze etiche del loro lavoro fin dall’inizio, invece di esserne sopraffatti in seguito, a quando l’irrimediabile è ormai accaduto. 

La storia di Oppenheimer, come tante altre nel corso dei secoli, dimostra in maniera inequivocabile l’importanza di integrare la filosofia e l’etica nei processi di innovazione scientifica e tecnologica. La filosofia, infatti, promuove un dialogo critico e interdisciplinare tra scienziati, ingegneri, filosofi, politici e pubblico. Questo è un passaggio cruciale, una tappa obbligata se vogliamo davvero garantire che l’innovazione sia guidata non solo dal progresso tecnico, ma anche da valori etici condivisi, offrendo un terreno comune per una comprensione olistica delle sfide morali emergenti.

Come sottolineato dal filosofo Hans Jonas con il suo rivoluzionario “Principio Responsabilità”, la filosofia ci fornisce un quadro etico essenziale per riflettere sulle conseguenze future delle nostre azioni innovative, oltre la mera ricerca del nuovo, sottolineando l’importanza di un’etica della responsabilità predittiva per gli scienziati e i tecnologi. 

Jonas parte dalla constatazione che le nuove tecnologie, soprattutto quelle legate alle biotecnologie e all’ingegneria genetica, hanno acquisito un potere senza precedenti di trasformare e persino distruggere la biosfera e la vita stessa sulla Terra. Di fronte a questa “prometeica assunzione di potere” da parte dell’uomo, le etiche tradizionali incentrate sull’agire individuale risultano inadeguate.

Jonas propone quindi un nuovo imperativo etico, un “Principio Responsabilità” che ci obbliga a includere nelle nostre valutazioni morali non solo la condizione umana presente, ma anche le conseguenze delle nostre azioni sulla vita futura dell’umanità e del pianeta. Una “etica della responsabilità predittiva”.

Il Principio Responsabilità si può riassumere così: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra.”

Questo principio rivoluzionario va ad ampliare il focus dell’etica dalla sfera dei singoli individui a quella dell’umanità come specie, non solo quella presente, ma anche alle future generazioni e quindi all’intera biosfera. La responsabilità non è più solo verso il prossimo, ma verso l’umanità futura e l’ambiente, verso cui le nuove generazione erediteranno, nella stessa ottica, la responsabilità nel presente a venire.

Jonas sottolinea come il progresso tecnico-scientifico non sia eticamente neutro, ma richieda una costante valutazione etica a priori dei suoi potenziali impatti catastrofici e irreversibili in cui “la conoscenza deve allearsi con la saggezza.” Un monito contro l’hybris della ragione strumentale a segnare un perimetro nel suo percorso, a immaginare dei limiti alla propria azione, ad indirizzare lo sviluppo scientifico verso un equilibrio sostenibile tra essere umano e natura, con uno sguardo sempre attento alle conseguenze e un senso costante di responsabilità verso le future generazioni.

Tutto questo ci offre un quadro etico in cui riflettere sugli impatti a lungo termine delle nostre azioni, oltre la mera ricerca dell’innovazione fine a sé stessa o di un progresso cieco davanti alla sofferenza che potrebbe causare, incurante rispetto alle conseguenze di medio e lungo termine. 

Integrare il metodo proprio della filosofia della scienza nei processi di innovazione alimenta un approccio più coscienzioso, aperto e lungimirante alle implicazioni delle nuove tecnologie, dotandoci degli strumenti più idonei per affrontare le crescenti sfide etiche in modo inclusivo e responsabile verso le generazioni future. Questa ricerca di significato e responsabilità affonda le sue radici nella tradizione filosofica stessa.

Il rapporto tra l’uomo e la realtà

La filosofia non nasce dal distacco dalla realtà, come a volte si pensa. Fin dalle sue origini, a partire almeno dal VII secolo a.C., ma già in precedenza con il pensiero mitologico, l’uomo ha maturato la convinzione che la realtà non si riduca alle sole manifestazioni sensibili e si è di conseguenza impegnato nella ricerca del significato profondo da attribuire alle cose che vedeva e sentiva. Per questo nell’acqua, nell’aria, nella terra, nel fuoco, oltre a ciò che in essi è palese e si dà concretamente, coglieva anche qualcosa di completamente diverso, che lo spingeva a ritenere che vi fossero compresenti il sensibile e il sovrasensibile, il visibile e l’invisibile, il fisico e il metafisico.

Il visibile lo ancorava alla terra, l’invisibile lo spingeva, in maniera irresistibile, a volgere costantemente lo sguardo verso le stelle e il cielo, con la convinzione che a tutto ciò che accadeva sulla terra dovesse corrispondere qualcosa che si verificava lassù, nella volta celeste.

Il riferimento a questi due mondi ha continuato a caratterizzare anche l’educazione spirituale, l’intelligenza moderna, nelle quali persiste questa opposizione che rende l’uomo anfibio, in quanto egli sente di vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro.

Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subito da essa.

Questa sua natura anfibia pone l’uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione.

Una progettualità di alto profilo presuppone ed esige, prima ancora e più ancora che un intervento sulla realtà esterna, un processo che sappia trasformare l’universo interiore del progettista nell’orizzonte di una ricezione, sempre più ampia, potenzialmente infinita, sensibile a tutti i segnali e gli input che il contesto, oggetto del suo intervento, può indirizzare a chi lo osserva e lo studia con la dovuta attenzione. Si conquista così uno spazio ricettivo senza limiti, espressione del desiderio non tanto di possesso del mondo, bensì di appropriazione di sé attraverso lo spettacolo che ci viene offerto dal mondo medesimo.

Inventare il futuro: pensare l’innovazione

Questo significa lavorare sugli strumenti con i quali pensiamo e progettiamo, per comprendere i punti di forza e di debolezza di ciascuno di essi.

La deduzione, com’è noto, è il processo con il quale si perviene, mediante un ragionamento o un calcolo, a una conclusione derivata da una o più premesse. L’espressione più rigorosa di questo tipo di processo è la dimostrazione matematica che, partendo da premesse assunte come valide per ipotesi o da proposizioni già dimostrate in virtù di queste premesse, determina la necessaria validità di una nuova proposizione in virtù della (sola) correttezza formale del ragionamento. 

L’induzione dà luogo al «problema di Hume», con cui si è confrontato anche Kant, e che è all’origine della “rivoluzione copernicana” da lui operata nella Critica della ragion pura, che consiste nel cercare di capire come si passi da una molteplicità di osservazioni a una teoria che permetta di prevedere il comportamento della natura. È corretto e scientificamente affidabile, si chiedeva Hume, il procedimento induttivo, che ci autorizza a passare da tanti casi particolari a un enunciato generale?

L’esempio tipico di Hume era questo: come possiamo essere certi che domani sorgerà il sole sulla base del fatto che ogni giorno l’esperienza passata ci ha insegnato che il sole è sorto? C’è una ragione per cui il futuro debba necessariamente somigliare al passato? La risposta da lui fornita era scettica: l’induzione non è uno strumento affidabile per la ricerca della verità, in quanto è basata su un’indebita trasformazione di una successione temporale (post hoc) in un legame causale (propter hoc). Tuttavia l’uomo è portato a “credere” nell’induzione (a credenze del tipo “domani sorgerà il sole”) perché guidato dall’abitudine. Ciò che ho visto molte volte accadere mi porta alla credenza che lo rivedrò ancora accadere. 

Bertrand Russell presenta una variante particolarmente spiritosa e incisiva di questo problema.

Si pensi a un tacchino americano a cui viene dato da mangiare tutti i giorni. A ogni pasto si consolida la sua convinzione che una regola generale della vita sia quella di essere sfamati quotidianamente da membri amichevoli della razza umana che pensano solo al suo benessere. La sua fiducia si rafforza man mano che cresce il numero dei pasti che gli vengono somministrati e ogni giorno la sua ipotesi di trovarsi in un ambiente amichevole viene corroborata.

Man mano che i giorni passano e la sua morte si fa sempre più prossima il tacchino si sente sempre più al sicuro. Il suo senso di sicurezza, dunque, raggiunge il massimo proprio nel momento in cui il rischio diventa maggiore. È questo il guaio e l’aspetto paradossale dell’induzione: apprendere all’indietro, confidando nell’uniformità del corso della natura e dell’esperienza e nell’impossibilità di un cambiamento radicale. Poi però, in vista del giorno del Ringraziamento, al tacchino succede una cosa totalmente imprevista: gli viene tirato il collo per essere cucinato.

Charles Sanders Peirce (1839-1914) propose una «terza via» rispetto ai due processi e strumenti per pensare finora presi in considerazione. Particolarmente interessato a capire in che cosa consista il metodo scientifico e quali siano le sue caratteristiche egli cerca di  ricostruire il modo in cui ragiona lo scienziato quando fa scienza.

A tal fine sviluppa la filosofia della scienza nella sua teoria dell’inferenza, dove per inferenza di deve intendere non una serie di processi mentali – infatti, dal punto di vista psicologico si può arrivare a una teoria attraverso i modi più impensati –, ma l’insieme dei tipi di ragionamento scientifico e i generi di giustificazioni che se ne possono offrire. A questo proposito egli distingue tre differenti fondamentali modi di ragionamento: la deduzione, l’induzione e la retroduzione (usualmente tradotta con il termine abduzione). La deduzione è il ragionamento che, se correttamente usato, non può condurre da premesse vere a una conclusione falsa; data la verità delle premesse deve necessariamente seguire la verità della conclusione. La necessità del ragionamento deduttivo dipende dal fatto che esso non è esposto alla possibile confutazione empirica.

Il ragionamento deduttivo, quello logico e quello matematico, vale in ogni possibile universo. L’induzione, dal canto suo, è quel tipo di ragionamento dove si conclude che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati; così, per esempio, dal fatto che tutti i cigni finora osservati sono risultati bianchi appare legittimo concludere che anche gli altri cigni saranno bianchi. A giudizio di Peirce accanto alla deduzione e all’induzione va presa in considerazione anche l’abduzione (o retroduzione o ragionamento ipotetico). Le differenze esistenti tra l’induzione e l’abduzione sono sostanzialmente due: in primo luogo nell’induzione si conclude, come detto, che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati, mentre nel ragionamento ipotetico o abduzione si giunge alla conclusione che esiste un fatto completamente diverso da qualsiasi altro finora osservato; in secondo luogo si vede che, mentre l’induzione classifica, l’abduzione spiega. 

Lo schema del ragionamento per abduzione è il seguente: 

  1. Si osserva C, un fatto sorprendente. 
  2. Ma se A fosse vero, allora C sarebbe naturale. 
  3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero. 

Ciò che in simile schema si sostiene è che una certa congettura (o ipotesi), cioè che A sia vero, vale la pena di essere presa in considerazione. Vediamo così, che l’abduzione è il frutto del momento inventivo, creativo dello scienziato, dell’attimo fortunato della fantasia scientifica che formula ipotesi esplicative generalizzate, le quali, se confermate, diventano leggi scientifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate. Ed è proprio l’abduzione a far progredire il pensiero scientifico e tecnologico, che avanza da una parte sul vettore dell’inglobamento progressivo di fatti nuovi e insospettati che spingono per questo ad inventare nuove ipotesi capaci di spiegarli, e dall’altra sul vettore di una unificazione assiomatica delle leggi, attuata da quelle che si dicono le grandi idee semplici. 

Lo aveva già genialmente intuito Henri Poincaré, il quale più di un secolo fa, con un’originalità e una capacità di anticipazione che ancora oggi non cessano di stupire, osservava, a proposito del comportamento dello scienziato, che egli deve, quando si trova di fronte ai dati e alle osservazioni che costituiscono il suo materiale di lavoro, “non tanto constatare le somiglianze e le differenze, quanto piuttosto individuare le affinità nascoste sotto le apparenti discrepanze. Le regole particolari sembrano a prima vista discordi, ma, a guardar meglio, ci si accorge in genere che sono simili; benché presentino differenze materiali, si rassomigliano per la forma e per l’ordine delle parti. Considerandole sotto questa angolazione, le vedremo ampliarsi, tendere a diventare onnicomprensive. Ed è questo che dà valore a certi fatti che vengono a completare un insieme, mostrando come esso sia l’immagine fedele di altri insiemi già noti. Non voglio insistere oltre; saranno sufficienti queste poche parole per mostrare che l’uomo di scienza non sceglie a caso i fatti che deve osservare […]. Egli cerca piuttosto di concentrare molta esperienza e molto pensiero in un esiguo volume, ed è per questo motivo che un piccolo libro di fisica contiene così tante esperienze passate e un numero mille volte maggiore di esperienze possibili delle quali si conosce già il risultato”. 

L’uomo di scienza, dunque, non procede accatastando e accumulando fatti e dati, non agisce per sommatoria, bensì per intersezione e per incastro, riscontrando, sotto le diversità che si manifestano, ponti sottili e analogie non rilevabili da un occhio non esercitato ed esperto. Egli riesce, in tal modo, a stabilire collegamenti e a operare trasferimenti e sovrapposizioni che gli consentono di ridurre considerevolmente il volume delle esperienze, sia effettivamente realizzate, sia semplicemente possibili, di cui può disporre. 

Secondo Peirce, comunque, pur prendendo atto della priorità e della specifica funzione svolta dal processo d’inferenza ipotetica, dobbiamo renderci conto che l’abduzione è intimamente connessa con la deduzione e l’induzione. Lo è nel senso che, dovendo giudicare della ammissibilità della ipotesi, occorrerà che ogni vera ipotesi plausibile sia tale che da essa si possano dedurre delle conseguenze le quali, a loro volta, possano essere collaudate induttivamente, vale a dire sperimentalmente. E a suo giudizio, una tale dipendenza non ha carattere unilaterale, in quanto egli considera l’induzione soprattutto come un metodo per collaudare le conclusioni; e queste conclusioni, a suo parere, sono sempre suggerite, per la prima volta, dall’inferenza ipotetica.

Con l’induzione si generalizzano e si collaudano le conseguenze che si possono dedurre da una data ipotesi; così la reciproca dipendenza di queste due forme di inferenza, e la loro dipendenza comune dalla deduzione, risultano ugualmente chiare. In altre parole, il mondo e l’infinità dei fatti che lo compongono noi li investiamo, per comprenderli, prevederli e manipolarli, con ipotesi o congetture di carattere generale, dalle quali possiamo dedurre proposizioni singolari che, se verificate, confermano quelle ipotesi, che così passano al rango di leggi, comunque sempre rivedibili. 

Ciò significa che noi gestiamo cognitivamente il mondo che ci circonda con operazioni mentali, come la formulazione di ipotesi e il loro controllo costante, attraverso un processo, quello della corroborazione, che incrementa via via l’affidabilità delle nostre congetture sulla base del resoconto valutativo dei controlli superati con successo, delle prove passate che possono essere esibite a loro sostegno. Pur non potendoci fornire alcuna sicurezza  sull’idoneità a sopravvivere ai controlli futuri è chiaro che la corroborazione costituisce il migliore strumento di cui possiamo disporre per selezionare le ipotesi in base al grado di fiducia che possiamo avere in ciascuna di esse sulla base  della qualità e quantità dei controlli effettuati. 

È immediato capire quanto sia fondamentale per l’industria dell’innovazione poter contare sulla disponibilità di procedure di valutazione degli esiti futuri, come quelle descritte, che abbiano il livello massimo di rigore al quale possiamo ragionevolmente aspirare.

È per questo che lavoriamo insieme da tanti anni.

Che il Signore che ce ne regali il più possibile altri.

 

Con affetto e dedizione

Silvano Tagliagambe, Nicola Pirina e Carlo Mancosu