Futuro

Prospettive economiche per i nostri figli e per i nostri nipoti

Il futuro visto dalla periferia
Sono 44 anni che vivo a Serramanna, un paese di poco meno di 9.000 anime nel cuore del Campidano, in Sardegna. Vista dall’esterno (ma anche dall’interno) non certo la patria delle possibilità, tantomeno quello che in tanti considererebbero un osservatorio privilegiato da cui vedere e progettare il futuro. Eppure, nel corso degli anni, anche da qui, dalla periferia della periferia dell’impero, abbiamo immaginato futuri possibili e abbiamo lavorato per realizzarli.

Ho sempre pensato che sia proprio dalle periferie, dagli osservatori insoliti e marginali, che possano arrivare le intuizioni più preziose per ripensare il nostro rapporto con il progresso e con il senso delle nostre vite. Spesso, infatti, è proprio ai margini che il bisogno di cambiamento si fa più forte ed urgente, ed è proprio lì che l’innovazione diventa più radicale e dirompente. Si tratta di un’innovazione disobbediente, un’innovazione che non aspetta e non chiede il permesso, un’innovazione coraggiosa che non teme di rischiare perché porta con sé la consapevolezza che il rischio più grande è restare immobili e subire il cambiamento che altri hanno scelto per noi. È un’innovazione che nasce dalla scintilla della creatività e dell’immaginazione, dalla capacità di vedere oltre i confini del visibile ciò che è già lì ma che gli altri ancora non vedono. Una capacità di visione che non ha limiti, che non teme l’impossibile, anzi, che il più delle volte lo persegue come obiettivo.

La mia, come quella di tanti altri ragazzi della mia generazione, fin da piccolo, è stata una condizione kafkiana: assegnato dal caso a quella che Emilio Lussu, uno dei padri nobile del Sardismo e dell’autonomismo sardo, definì senza esitazioni come una “nazione mancata” e che il Bellieni, anch’egli fondatore del PSDAZ, si spinse a definire in maniera ancora più forte “nazione abortita”. Un luogo di rara bellezza, dalla cultura e dalla storia millenaria, terra di contraddizioni profonde, talvolta selvaggia, ribelle e indomabile ma anche storicamente divisa, servile, grata, utile e fedele con gli invasori; Nel corso della storia, nel succedersi degli imperi siamo stati su commissione di terzi granaio, miniera, prigione, legnaia, colonia estiva, servitù militare, deposito di stoccaggio, merce di scambio e tutto questo con il placet di molti dei miei conterranei convinti che le cose buone in questa terra possano arrivare solo da fuori e che in fondo si debba essere grati al destino per l’occasione dataci di essere schiavi dei servi.

Figli di un’identità che sfoggiamo con orgoglio museale nello spettacolo variopinto e autoreferenziale del folklore nostrano ad uso e consumo degli spettatori paganti e non, ma per la quale non perdiamo occasione di mostrare vergogna nei fatti, quando si tratta di riformare le istituzioni, quasi fossimo vittime di uno sdoppiamento.
Un bipolarismo che porta molti di noi Sardi a vivere nel mito di sé stessi, salvo poi non assumersi mai nessuna responsabilità e non sentirsi mai abbastanza adulti per l’autodeterminazione. Così, mentre non perdiamo mai occasione di guardare a Roma per qualsiasi decisione importante sul nostro futuro e sul destino di questa terra, continuiamo a piatire l’amore di chi ci guarda distrattamente da fuori, di estranei che fingiamo di amare tre mesi all’anno ma che spesso, nel profondo, viviamo con lo stesso fastidio con cui accusiamo loro di vivere noi, ma il cui giudizio è purtroppo divenuto nel tempo l’unico metro con cui tendiamo a torto a misurarci, lo specchio distorto attraverso cui vediamo noi stessi.

Una terra ricca di storia, cultura, risorse naturali ed umane che per chissà quale ragione continuiamo ad essere incapaci di valorizzare. Una oramai costosissima oasi per turisti che abbiamo reso inospitale per chi vi è nato o anche semplicemente la abita, perennemente in vendita al peggior offerente in una costante asta al ribasso. Una terra che, fin dall’adolescenza, chi ti è attorno ti suggerisce di abbandonare prima che sia troppo tardi, in cui i giovani, talentuosi o meno, sono spinti a cercare fortuna altrove. Un luogo da cui fuggire senza mai voltarsi indietro a guardare ciò che abbiamo lasciato.

Malgrado ciò, quanto che è accaduto a me e che per fortuna accade sempre più spesso a tanti altri, è che proprio questa condizione di mancanza, di assenza di opportunità pronte da cogliere, si sia invece mostrata invece come una opportunità irripetibile, un’occasione unica di crescita e di realizzazione. Perché in un luogo in cui non c’è nulla (come dicono) lo spazio del fare è totale. Perché vivere in realtà come queste ti costringe a tirare fuori il meglio di te, a sviluppare creatività, antifragilità, intraprendenza. A non dare nulla per scontato e a cercare di rendersi fautori delle proprie fortune non attraverso la competizione ma attraverso la condivisione e la collaborazione con altre persone che hanno maturato visioni simili alla tua e che hanno dentro lo stesso fuoco.

Certo non è cosa semplice – e sia chiaro, non voglio certo dire che altrove lo sia. Ma, dal mio punto di vista, la differenza tra fare le cose da una grande città o dalla provincia della provincia, è avvicinabile alla differenza che passa tra studiare il pianoforte o il violino: certo, entrambi hanno livelli di complessità simili per raggiungere alti livelli di tecnica ed espressività, ma il lavoro sul violino, soprattutto i primi mesi/anni, è di gran lunga più ingrato. Mentre nel pianoforte (se ben accordato) è sufficiente premere un tasto per udirne il suono intonato e finito, nel violino no! si deve sudare parecchio prima di udire qualcosa che non somigli al cigolio notturno di una porta arrugginita che raschia a terra sbattendo incessante sullo stipite imbronciato che le impedisce di chiudersi; una pena per te e per chi ti sta vicino. Ma, allo stesso tempo, mentre il pianoforte rimane uno strumento che ti tiene a distanza, le mani non toccano mai direttamente la fonte sonora; uno strumento – passatemi il termine – “esterno”, che possiamo sentire, anche in maniera profonda, ma di cui, in fondo, anche mentre suoniamo, rimaniamo sempre un po’ spettatori, il violino, di contro, vibra con il musicista, le sue frequenze, letteralmente. ci attraversano il corpo al di là del mero suono, diventando un’estensione di noi stessi, uno strumento che vibra e risuona con noi, dentro di noi e attraverso di noi. Questi implica che nel caso delle periferie (violino) l’atto di innovare non si limita quasi mai solamente all’operare “su” un contesto, ma significa più propriamente divenire parte di un processo autopoietico di co-evoluzione in cui la trasformazione dell’ambiente si configura simultaneamente come processo di auto-trasformazione.

Viste da questa prospettiva, le periferie rappresentano proprio questo: uno strumento esigente e inizialmente ingrato, che tuttavia, una volta superata la fase iniziale, consentono di sperimentare modalità nuove e nuovi percorsi creativi autonomi. Il valore di questa esperienza non risiede primariamente nel riconoscimento esterno come può avvenire altrove, ma nella conquista dell’autonomia espressiva stessa.

In questa logica l’innovazione periferica non si configura semplicemente come innovazione “paziente”, ma come manifestazione di un paradigma temporale qualitativamente differente, caratterizzato da una complessa stratificazione di orizzonti cronologici che trascende la linearità progressiva tipica dei modelli standardizzati votati al breve termine e alla mera realizzazione di profitti. Questa modalità trans-temporale dell’innovazione periferica si manifesta in pratiche che incorporano in maniera quasi naturale la responsabilità intergenerazionale non come vincolo esterno, ma come dimensione costitutiva dell’agire trasformativo. L’innovatore periferico opera nella consapevolezza di essere simultaneamente custode di un patrimonio sedimentato e generatore di potenzialità future, in un processo di “cura” che trascende le logiche estrattive dell’immediata valorizzazione per aprirsi alla generatività e alla visione di lungo termine. 

Questo tipo di visione porta dritta alla creazione di una logica policentrica, reticolare e multidimensionale, dove gli ecosistemi dell’innovazione non vengano appiattiti dalla rincorsa a modelli esogeni, ad esotismi insostenibili, ma messi in condizione di valorizzare le proprie diversità, condividerle, metterle a fattor comune per permettere a ciascuna comunità, ciascun territorio di trovare la propria strada per l’innovazione.

Anche per questo, la scelta di restare e di costruire qualcosa in Sardegna è stata per me molto ponderata ma per nulla sofferta. Ciò che più mi premeva era dimostrare che chiunque, persino io, avrebbe potuto, nel suo piccolo, fare la sua parte per creare le condizioni affinché i giovani abitanti di quest’Isola di domani, qualsiasi fosse le origini e la loro provenienza,  potessero decidere di restare – ma anche di sceglierla come nuova casa – con serenità e fiducia. Affinché partire, studiare all’estero, vedere il mondo non fossero i prodromi di una fuga o un biglietto di sola andata, ma un modo per acquisire esperienze da mettere poi al servizio del proprio territorio, delle comunità e delle generazioni future.

Fu con questo spirito che, da studente fuoricorso di lettere e filosofia a Cagliari nel 2006, mi avvicinai allo studio dell’economia, da cui mi ero sempre tenuto a distanza di non contaminazione, e fu in quello stesso periodo che per la prima volta incrociai la figura di John Maynard Keynes. Fu per me una vera folgorazione, non solo arricchì notevolmente le mie chiavi di lettura rispetto alla visione della storia ma mi fece intravedere che il futuro poteva essere radicalmente diverso da quello che il presente lasciava presagire e che l’economia, così come il denaro o il sistema capitalistico in fondo non erano che costrutti antropici, e che quindi l’importanza e il ruolo della questione economica nelle nostre vite non doveva necessariamente essere per sempre la questione centrale delle nostre esistenza, perché non era governata da leggi fisiche immutabili ma dalle scelte degli uomini e quindi dipendeva da noi e dalle nostre scelte.

A quel tempo avevo appena finito di leggere “Le conseguenze economiche della pace” e “Esortazioni e profezie”. Mi stavo preparando ad affrontare la sua “Teoria generale”, quando in biblioteca mi imbattei quasi per caso con questo breve saggio: “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Il titolo attirò subito la mia attenzione. Avevo già potuto apprezzare come Keynes fosse capace di leggere molto nitidamente il suo tempo e di elaborare previsioni piuttosto affidabili sulle conseguenze delle scelte presenti sul futuro, e ero incredibilmente curioso di leggere la sua visione del futuro economico. In fondo a distanza di quasi un secolo uno di quei nipoti o pronipoti a cui si riferiva potevo tranquillamente essere io.

Ma cosa aveva previsto per noi e per il nostro futuro quello che potremmo considerare il più importante economista del ‘900? Quali prospettive economiche immaginava per le generazioni a venire?

Keynes e Russell: profeti di un futuro libero dal “problema economico”
Keynes, nel 1930, scriveva: “Tra cent’anni, il livello di vita nei paesi progressisti sarà da quattro a otto volte più alto di oggi”. E aggiungeva: “Per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”. Questa stessa visione di un’era di abbondanza post-scarsità era condivisa anche dall’amico e confratello di Cambridge Bertrand Russell. Nel suo “Elogio dell’ozio” del 1932, Russell immaginava una società in cui il lavoro necessario sarebbe stato equamente distribuito, in modo che tutti avessero abbastanza tempo libero per coltivare arte, scienza, relazioni e piaceri della vita.

Si trattava di premesse davvero affascinanti.

Ciò che colpisce in queste visioni è non solo la loro audacia profetica, ma anche la loro profonda fiducia nel potenziale emancipatorio del progresso tecnologico. Per Keynes e Russell, l’automazione e l’aumento della produttività avrebbero dovuto liberare l’umanità dal giogo del lavoro, aprendo spazi inediti di realizzazione personale e sociale. L’economia sarebbe diventata sempre più un mezzo per vivere bene, invece che il fine ultimo delle nostre esistenze.

Conoscevo bene l’”Elogio dell’ozio” di Bertrand Russell, lo lessi e rilessi più di una volta. Quindi quando mi approcciai al libello keynesiano, i due testi entrarono subito in risonanza nella mia mente, come due diapason vibravano esattamente sulla stessa frequenza. Era possibile leggere il legame tra gli autori, pur non conoscendolo. Era possibile annusare lo stesso humus, quella Cambridge degli anni ‘30 che ancora oggi rappresenta per me uno tra gli apici culturali irripetibili del secolo scorso. Quel momento, con quel libro in mano, segnò un punto di svolta nella mia comprensione degli obiettivi che un’economia sana dovrebbe perseguire e di quale impatto dovrebbe avere sulla società. In quel momento ebbi anche io un obiettivo, sapevo nitidamente cosa avrei dovuto fare o che – indipendentemente dai risultati – avrei dovuto provare a farlo.

L’Effervescenza Intellettuale della Cambridge degli Anni ‘30
Per capire meglio il contesto in cui maturarono le visioni di Keynes e Russell, è utile fare un tuffo nell’atmosfera straordinaria di Cambridge negli anni ‘30 del secolo scorso. Un vero e proprio calderone di idee rivoluzionarie e dibattiti appassionati, in cui alcune delle menti più brillanti dell’epoca si confrontavano su filosofia, economia, matematica, arte, letteratura, politica.

Keynes e Russell, amici intimi e anime del Bloomsbury Group, erano solo due delle figure di spicco di questo panorama intellettuale. Accanto a loro c’erano personaggi del calibro di Ludwig Wittgenstein, che con il suo “Tractatus” e le sue lezioni di filosofia del linguaggio attirava studenti e colleghi da tutto il mondo; Piero Sraffa, economista marxista amico di Gramsci, che avrebbe legato profondamente con Keynes, contribuendo all’affermazione delle sue idee demolendo le fondamenta teoriche del lavoro economico di Hayek (in particolare la sua teoria del capitale e del ciclo economico) e influenzando una nuova generazione di economisti eterodossi; Joan Robinson, voce originale e provocatoria che sfidava l’ortodossia neoclassica sulla concorrenza e sulla teoria del capitale. Solo per citarne alcuni.
Ciò che colpisce di questo ambiente è la straordinaria porosità tra discipline e saperi diversi. Come scrive Sylvia Nasar in “Grand Pursuit: The Story of Economic Genius” (2011), “Cambridge negli anni ‘30 era un luogo in cui i confini tra discipline erano labili, dove economisti leggevano Freud e Dostoevskij, filosofi studiavano matematica e logica simbolica, e critici letterari dibattevano di antropologia e teoria del valore.”

Fu in questo caleidoscopio culturale fatto di scambio incessante e contaminazione reciproca che Keynes e Russell svilupparono alcune delle loro intuizioni più profonde e durature. Le loro conversazioni, che si prolungavano fino notte fonda tra i corridoi del King’s College o nei giardini di Grantchester, rappresentavano il meglio della tradizione umanistica: una ricerca appassionata della verità attraverso il dialogo, la critica e l’immaginazione. Certo, si trattava pur sempre degli anni ’30, di un ambiente elitario, materialmente e intellettualmente molto distante dalla vita dell'”uomo” comune, ma è altrettanto vero che una parte importante del substrato teorico delle social-democrazie europee del secondo dopoguerra nacquero proprio lì a partire da questo humus di contaminazione e da questa humanitas terenziana omnicomprensiva.

In un mondo sempre più complesso e interconnesso, dove le sfide che affrontiamo – dal cambiamento climatico alle disuguaglianze sociali, dalla rivoluzione digitale alle crisi geopolitiche – richiedono una comprensione multidimensionale e una visione sistemica, credo che abbiamo bisogno di ritrovare quello spirito di interscambio, permeabilità intellettuale e di contaminazione tra saperi che caratterizzò la Cambridge di quegli anni. In fondo, il ruolo degli intellettuali, degli scienziati e degli innovatori non è solo quello di interpretare il mondo, ma anche quello di lavorare insieme per contribuire a cambiarlo, mettendo le proprie idee e le proprie visioni al servizio dell’umanità.

Fu in questo caleidoscopio culturale fatto di scambio incessante e contaminazione reciproca che Keynes e Russell svilupparono le loro visioni di un futuro post-scarsità. Visioni che, come vedremo, sono state in parte disattese dalla realtà, ma che rappresentano ancora oggi una sfida e un’ispirazione per il nostro tempo.

Allarme Spoiler: la profezia non si è avverata
Viste dalla nostra prospettiva, le previsioni di Keynes e Russell di un’era di abbondanza e liberazione dal lavoro sembrano piuttosto ingenue e distanti. La verità è che a quasi un secolo da quando furono pronunciate ci troviamo di fronte a un paradosso stridente. Da un lato, il progresso tecnologico ha superato di gran lunga le previsioni di entrambi: abbiamo smartphone più potenti dei computer che portarono l’uomo sulla Luna, modelli di intelligenza artificiale che battono i campioni di scacchi o di Go, che sono in grado di generare testi, musica, immagini e di fare previsioni sempre più affidabili, sonde e robot che esplorano Marte, satelliti che scrutano i confini dell’universo conosciuto. La produttività è aumentata enormemente e la ricchezza globale ha raggiunto livelli fino a cent’anni fa inimmaginabili.

Parallelamente, nonostante gli enormi progressi tecnologici abbiano permesso una crescita della produzione senza precedenti e un netto miglioramento del tenore di vita per una parte sostanziale della popolazione mondiale, i frutti di queste conquiste sono tutt’altro che equamente distribuiti, le diseguaglianze sono aumentate drasticamente e di certo non abbiamo assistito alla riduzione degli orari di lavoro o all’aumento del tempo libero che molti avevano previsto.

Secondo l’antropologo David Graeber l’automazione e il progresso tecnologico lungi dall’aver portato a un aumento del tempo libero, come ci si sarebbe aspettati. Al contrario, molti di questi lavori, sono stati sostituiti da quelli che lui definisce “lavori inutili” (bullshit jobs).
Il sistema economico, invece di distribuire i benefici dell’automazione sotto forma di maggior tempo libero, ha portato alla creazione di nuove occupazioni spesso percepite come prive di senso o di uno scopo concreto che non sia ottenere in cambio un salario. Questi “lavori inutili”, a detta dell’antropologo, non producono alcun valore reale per la società e esistono principalmente per mantenere in funzione il sistema economico e le persone occupate.

In sostanza, invece di essere state liberate dalla necessità del lavoro, le persone si trovano intrappolate in impieghi che percepiscono come insignificanti, lavorando lunghe ore non per necessità produttiva o per uno scopo socialmente desiderabile ma per conformarsi a strutture economiche che sembrano aver perso di vista il benessere umano come obiettivo primario condannando milioni di persone all’insoddisfazione lavorativa, allo stress e all’alienazione.

In poche parole il futuro di abbondanza diffusa e liberazione dal lavoro prefigurato da Keynes e Russell sembra più lontano che mai. Non solo lavoriamo più ore, facendo lavori inutili e privi di scopo ma ci ritroviamo in un contesto socio-economico in cui le disuguaglianze sono esplose, i diritti faticosamente guadagnati dai lavoratori sono di nuovo in discussione e l’ansia e l’incertezza sono diventate compagne instancabili quotidiane delle nostre vite. La tecnologia servitaci dal potere non fa che distrarci, illuderci, disinformarci e ipnotizzarci mentre il prezzo ambientale e sociale di questo progresso è divenuto oramai insostenibile ed ha ampiamente raggiunto il punto di non ritorno.

Ma com’è possibile che le previsioni di due tra le menti più lucide del Novecento si siano rivelate così clamorosamente errate?

Possiamo individuare diverse ragioni.

Innanzitutto, volendo anche per ora tralasciare le variabili demografiche e geopolitiche, Keynes e Russell, pur anticipando con straordinaria lungimiranza l’avvento di un’era di abbondanza materiale resa possibile dal progresso tecnologico, avevano certamente sottovalutato alcune dinamiche critiche del capitalismo e della società industriale che hanno in parte vanificato le loro previsioni ottimistiche.
In primo luogo, essi potrebbero aver sottostimato la capacità del sistema capitalista di generare continuamente nuovi bisogni e desideri indotti, anche a fronte di una crescente prosperità. Come argomenta Galbraith ne “La società opulenta”, l’economia moderna si basa in larga misura sulla creazione sistematica di bisogni attraverso la pubblicità e il marketing. Invece di liberare gli individui dalla pressione del consumo, l’abbondanza materiale sembra aver innescato una spirale di desideri indotti e di consumismo compulsivo, che si è di fatto tradotta in una maggiore dipendenza dai meccanismi del mercato invece che in una maggiore libertà.

In secondo luogo, Keynes e Russell potrebbero aver sottovalutato le implicazioni sociali e politiche del progresso tecnologico in un contesto di forti disuguaglianze e concentrazione del potere. Come mostra Piketty ne “Il capitale nel XXI secolo”, la tendenza del rendimento del capitale a superare il tasso di crescita porta inevitabilmente a una crescente polarizzazione della ricchezza. In questo scenario, i benefici derivanti dall’utilizzo massivo delle AI e dell’automazione rischiano di essere distribuiti in modo diseguale, inasprendo ulteriormente il divario, la voragine tra una élite di super-ricchi e una maggioranza di lavoratori impoveriti e precarizzati.

Infatti, strano a dirsi, ma entrambi potrebbero essere stati un po’ troppo ottimisti rispetto alla capacità ma prima ancora rispetto alla volontà delle istituzioni politiche di governare il cambiamento tecnologico e di indirizzarlo verso il bene comune. Come suggerisce Harari in “Homo Deus”, il progresso rischia di superare la nostra saggezza etica e politica, lasciandoci impreparati ad affrontare le sfide poste da settori come l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la gestione dell’informazione nell’era della post verità. Le nostre democrazie faticano a tenere il passo con l’accelerazione del cambiamento e a prendere decisioni informate e lungimiranti.

Come aveva previsto Marx, la dinamica del capitalismo tende a concentrare il controllo dei mezzi di produzione, creando un sistema di sfruttamento e disuguaglianza. Nell’era digitale, l’accesso alle materie prime (informazioni), alla logistica (protocolli e trasmissione e spazio di memorizzazione) e ai mezzi di produzione (software e potenza di calcolo) sta diventando una nuova e potente barriera all’ingresso, che rischia di creare un divario incolmabile tra chi possiede e controlla questi strumenti e chi ne è escluso.
Questo paradosso ha radici profonde nelle dinamiche del cosiddetto capitalismo informazionale, che sembrano aver acquisito una nuova e inquietante dimensione.

Un aspetto cruciale della nostra era digitale è l’emergere di un modello di business basato sull’estrazione e mercificazione dei dati personali. Questo ha rapidamente creato e consolidato una nuova forma di potere che mina alla base l’autonomia e la libertà individuali. Le grandi corporations digitali e alcuni stati (come nel caso della Cina o di Singapore solo per citarne alcuni) accumulano enormi quantità di informazioni sulle nostre vite, preferenze e comportamenti, utilizzandole per profilare, predire e influenzare le nostre scelte.

Molti hanno paragonato questo sistema al “Grande Fratello” orwelliano, ma esiste una differenza fondamentale: mentre il Grande Fratello esercitava il suo potere in maniera autoritaria e spesso contro la volontà di un popolo che non aveva scelta, il nuovo paradigma di controllo è molto più sottile e seducente. Come aveva giustamente osservato Aldous Huxley in “Ritorno al mondo nuovo”, in una dittatura scientifica (e tecnologica), le persone sarebbero state indotte ad amare la propria schiavitù. Huxley scrive: “In una dittatura scientifica l’istruzione (intesa come programmazione) funzionerà veramente con il risultato che molti uomini e donne cresceranno amando la propria schiavitù e mai sogneranno la rivoluzione. A queste persone non sembrerà mai esistere nessuna buona ragione per cui una dittatura scientifica possa essere rovesciata.”
Queste nuove forme di potere, in effetti, ci seducono a collaborare attivamente alla nostra stessa sorveglianza. Attraverso scariche di endorfine a breve termine, premi, piaceri, servizi gratuiti e promesse di notorietà, veniamo indotti a scegliere volontariamente di privarci della nostra privacy. Come profeticamente affermò : “La dittatura perfetta avrà le sembianze di democrazia. Una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno nemmeno di evadere. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù.”

È una forma di potere più sofisticata e pervasiva di qualsiasi sistema di controllo del passato. Non si limita a condizionare il nostro comportamento esteriore, ma colonizza la nostra stessa interiorità, trasformando l’esperienza umana in una merce da vendere sul mercato dei futures comportamentali. In questo scenario, la libertà individuale e la privacy non vengono strappate con la forza, ma cedute volontariamente in cambio di comodità e gratificazioni immediate. La sfida che ci troviamo ad affrontare, quindi, non è solo tecnologica o politica, ma profondamente esistenziale: come preservare la nostra autonomia e il nostro senso di sé in un mondo che ci spinge costantemente a mercificare ogni aspetto della nostra vita interiore?

Questo aspetto mi sembra particolarmente rilevante per comprendere le dinamiche psicologiche e sociali dell’attuale economia digitale, e per cogliere la portata della sfida che abbiamo di fronte. Non si tratta solo di regolamentare la privacy o la concorrenza, ma di ripensare il senso stesso del progresso tecnologico e il suo impatto sulla condizione umana. Come possiamo riprendere il controllo dei nostri dati e della nostra attenzione? Come possiamo mettere la tecnologia al servizio dell’emancipazione invece che dell’assoggettamento? Sono domande che richiamano l’urgenza di un nuovo umanesimo digitale, capace di affermare la priorità della persona rispetto ai meccanismi estrattivi del mercato.

Le previsioni di Keynes e Russell, per quanto lungimiranti, rimanevano ancorate a un paradigma di crescita materiale e consumo di massa tipico della società industriale, inadeguato a cogliere le profonde trasformazioni della seconda metà del Novecento. L’avvento del capitalismo informazionale, della società dello spettacolo, della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia hanno radicalmente cambiato il volto stesso del capitalismo, rendendolo sempre più immateriale, segnico e speculativo.
In questo nuovo scenario, la crescita economica ha progressivamente incrementato il suo distacco dalla ricerca del benessere reale delle persone. Invece di perseguire obiettivi collettivi di prosperità condivisa, si è orientata verso una spirale di accumulo individuale di simboli monetari, di status e di potere, trascurando dimensioni fondamentali come la salute, l’istruzione, le relazioni sociali e la cura degli altri e dell’ambiente.

La miseria in mezzo all’abbondanza

Paradossalmente, l’abbondanza che abbiamo creato – di beni, informazioni, connessioni – ci ha resi più poveri in termini di risorse immateriali ma essenziali: tempo, attenzione ma soprattutto presenza autentica nelle nostre vite. Come acutamente osserva Byung-Chul Han ne: “La società della stanchezza”, nell’epoca della prestazione e dell’iperconnessione ci ritroviamo sempre più soli e alienati. Ecco allora emergere il paradosso più profondo della nostra era: l’abbondanza materiale, invece di tradursi in una maggiore libertà e pienezza di vita, ha spesso prodotto l’effetto opposto. Di seguito alcuni delle centinaia di esempi.

La globalizzazione, promettendoci di diventare “cittadini del mondo” in una “società sempre più aperta ed ecumenica”, ci ha in realtà rapidamente sradicati dai nostri contesti di vita, dal nostro hic et nunc. Mentre ci offre una connessione superficiale con culture lontane, ha eroso il senso di appartenenza alle comunità locali e la profondità delle relazioni personali, appiattendo e minacciando la diversità e l’esistenza stessa di quelle culture.

La delocalizzazione, spostando la produzione altrove per abbattere i costi, ha contribuito insieme all’automazione a generare i “bullshit jobs” – lavori inutili di cui abbiamo già parlato – che mantengono le persone occupate senza creare valore reale, frustrandone il senso di realizzazione e rubando loro la vita, otto ore per volta.

Internet, promettendoci libertà e informazione, ha finito con l’intrappolarci in una seducente prigione fatta di apparenza, basata su sfruttamento e disinformazione in cui il 90% delle ricerche è gestita da un unico motore di ricerca che sceglie per noi cosa è rilevante e cosa invece non lo è. Le piattaforme social, nate per connettere le persone, hanno paradossalmente aumentato l’isolamento e l’ansia sociale. Nel frattempo, gli algoritmi ci rinchiudono in bolle informative che polarizzano il dibattito pubblico, mentre una manciata di aziende decide cosa sia rilevante sapere grazie al controllo dei motori di ricerca.

L’economia della “convenienza” e della “comodità” – esemplificata dalla ricerca del prezzo più basso ad ogni costo, dai servizi di consegna a domicilio e dallo shopping online – prometteva di semplificarci la vita, liberando tempo per attività più significative e aumentando il nostro potere d’acquisto. In realtà, per garantire prezzi sempre più bassi, ha compresso i salari, creato sacche di sottoccupazione e ridotto la qualità di ciò che acquistiamo, creando una classe di lavoratori precari e sottopagati. Al contempo, ci ha resi sempre più dipendenti da servizi che ci allontanano dalle interazioni umane dirette e dall’esperienza del mondo reale – a cui paradossalmente siamo costretti a rivolgerci proprio per la mancanza di tempo.

Questo scenario ci pone di fronte a una sfida cruciale: come possiamo riconciliare il progresso tecnologico e l’abbondanza materiale con un autentico benessere umano? Come possiamo riequilibrare le nostre vite, recuperando quelle dimensioni di significato, connessione e radicamento che sembrano essersi perse nella corsa verso una crescita puramente quantitativa? La risposta a queste domande potrebbe essere la chiave per costruire, seppur in forma diversa, la visione di libertà e realizzazione umana che Keynes e Russell avevano immaginato.

Come diceva Adorno nelle pagine del suo testo più celebre: “il fatto che non si possa più parlare di ‘ozio’ mostra semplicemente come la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione sia diventata così acuta da non tollerare più neppure il ricordo della felicità.” L’integrazione è così spaventosa che, al contrario di quanto osservava il filosofo, neanche più la sofferenza si sottrae al processo di mercificazione. Questo mette in luce un paradosso ancora più stridente: in una società che sembra offrire infinite possibilità di godimento e realizzazione, anche la sofferenza diventa un’occasione di profitto, un’esperienza da consumare come tutte le altre. È come se il sistema avesse colonizzato ogni aspetto dell’esistenza, trasformando tutto – gioia e dolore, vita e morte – in una merce. Ci troviamo così in un mondo in cui la vita autentica è stata sostituita dalla sua rappresentazione, una condizione in cui siamo sempre più spettatori passivi delle nostre esistenze invece che attori e creatori.

Mi viene in mente un’intervista che raccolsi anni fa per un progetto di archivio orale in Sardegna. Una signora anziana, parlando delle feste paesane di una volta, diceva: “Adesso le persone vanno a vedere la festa, fanno gli spettatori. Quando ero giovane io, noi eravamo la festa”.
Ecco, credo che oggi siamo diventati spettatori non solo delle feste, ma delle nostre stesse vite. Nella nostra ossessione di documentare ogni istante sui social media, non stiamo forse creando un archivio digitale della nostra assenza? Come scrive Ferraris in “Mobilitazione totale”, “Il selfie non è un autoritratto, è un’automutilazione: ci si taglia fuori dal contesto, e lo si riduce a sfondo”.

La sfida, allora, non è solo tecnologica o economica, ma esistenziale e filosofica. Come possiamo usare la tecnologia non per fuggire dalla realtà, ma per impegnarci più a fondo con essa? Come possiamo creare un’abbondanza di significato e connessione autentica, invece che di gadget e distrazioni?

Queste domande ci riportano al cuore di quell’umanesimo che animava le visioni di Keynes e Russell. Non un umanesimo come dottrina fissa, ma come ricerca continua di ciò che significa essere pienamente umani in un mondo in rapida trasformazione. Un umanesimo capace di dialogare con la tecnologia senza esserne soggiogato, che sappia riaffermare il valore dell’umano in un’epoca post-umana.

Non è un mondo per umanisti
Ma c’è un’altra dimensione di questa crisi che non possiamo ignorare: il declino di quella vita intellettuale vibrante e poliedrica che caratterizzò l’epoca di Keynes e Russell. Guardando indietro a quella straordinaria stagione di Cambridge, non possiamo fare a meno di chiederci: dove sono i Keynes e i Russell di oggi?

La verità è che quel tipo di ambiente sembra irripetibile nel panorama contemporaneo. Chi oggi darebbe spazio a un marxista eterodosso come Sraffa o a un genio eccentrico come Wittgenstein? Ma la domanda più inquietante è: a chi interesserebbero oggi figure del genere?
Il culto della personalità si è spostato drasticamente. Gli studi e il successo accademico non rappresentano più un ascensore sociale o un mezzo di espressione. Viviamo in un’epoca in cui, come nota Galimberti, “il denaro è la chiave di comprensione della contemporaneità esattamente come Dio lo fu nel medioevo”. Siamo passati da Protagora che proclamava “l’uomo è misura di tutte le cose”, a un’era in cui il denaro è diventato la misura universale del valore e unico e ultimo metro di giudizio anche sul valore delle persone.

Ancora più desolante è che in questo nuovo paradigma, dove tutto ha un prezzo, gli unici ascensori sociali rimasti sembrano essere quelli che ci trasformano in pedine funzionali al sistema di controllo. Ci ritroviamo ad essere gli ingredienti base di una versione moderna e perversa del “panem et circenses”, dove il pubblico non si accontenta più di assistere passivamente allo spettacolo, ma compete ferocemente per farne parte in cambio di denaro facile e fama. In questa distopia contemporanea, il modo più rapido per guadagnarsi il “panem” è diventare uno dei più apprezzati “circenses”.

Non siamo più semplici spettatori ma siamo noi stessi armi di distrazione di massa, mentre ci affanniamo per diventarne i protagonisti dell’ennesimo meme usa e getta o ci facciamo noi stessi strumento di propaganda affrettandoci a condividerlo o a riprodurlo nella speranza di farlo passare per nostro e condividere parte della gloria e dei pollicioni in su, totalmente incuranti di quanto questo ci renda ancora più tristi, vulnerabili e controllabili. Questo fenomeno si manifesta in varie forme.

Pensate alla rapida trasformazione dell’universo sportivo in un complesso sistema di venerazione celebrativa. In questa dimensione l’atleta trascende la dimensione performativa per diventare non più solo entità iconica, come già accaduto in passato, ma vera e propria industria con tanto brand personale attraverso cui marchiare ogni genere di prodotto di consumo. Un caravan serraglio di oggetti e merchandise di ogni genere, spesso di scarso gusto e di dubbia utilità e qualità, da consumarsi preferibilmente in pubblico o davanti a uno smartphone, sfoggiati come talismani tribali dai poteri taumaturgici capaci di trasmettere il carisma dell’originale. Prodotti strapagati spesso frutto di manodopera sottocosto da sfoggiare nella vana ricerca di un vuota autorappresentazione fatta solo di luce riflessa. In questo orizzonte il successo di uno sportivo non viene più misurato in funzione delle sue performance sul campo, quanto piuttosto rispetto alla sua capacità di catalizzazione dell’immaginario collettivo e di penetrazione sul mercato. Il suo scopo non è vincere ma generare indotti, economie di scale e contenuti derivati che spesso con lo sport non hanno nulla a che fare.

Oppure pensate alla proliferazione e alla spettacolarizzazione di fenomeni pseudo sportivi perfetti per essere consumati nello scrolling compulsivo nei formati frugali tanto amati in questa contemporaneità usa e getta come i campionati di schiaffi, le sfide estreme o le lotte in ring posticci in mezzo al fango che attirano sempre più capitali, sponsor e spettatori alla faccia dei cosiddetti sport minori, praticati con amore e passione da decine di migliaia di sportivi che faticano non solo a trovare visibilità ma spesso anche a sopravvivere per la mancanza di fondi e per l’inedia di una collettività affetta da ipnosi; senza trascurare il settore del gioco d’azzardo – dai gratta e vinci, ai giochi online, fino ai mondiali di poker “sportivo” – e di come anch’esso rappresenti un paradigma in espansione esponenziale, con i media sempre in cerca di clickbait ad esaltare le storie di milionari facili e ad alimentare la ricerca di una ricetta capace di trasformare l’incertezza stessa in meccanismo di capitalizzazione, con profonde implicazioni nelle strutture di percezione mobilità socioeconomica e con atroci effetti collaterali per la salute delle persone, delle famiglie e delle comunità.

In questa nuova agiografia pagana del successo nell’era del transumanesimo, emergono sempre più spesso piattaforme digitali come OnlyFans, vero e proprio emblema della mercificazione della sfera privata e corporea secondo logiche transazionali finora inedite, dove l’intimità perduta viene venduta e acquistata in abbonamento. Queste piattaforme ridefiniscono radicalmente i confini tra pubblico e privato, trasformando l’esposizione del sé in strategia economica e in un vettore di mobilità sociale senza precedenti. Il corpo diventa capitale, e la sua esibizione sistematica rappresenta un investimento che promette rendimenti immediati, bypassando completamente i tradizionali percorsi formativi e professionali. Una rinuncia, quella di provarsi del privato, che rappresenta oramai un piccolo obolo, un investimento sicuro che promette rendimenti immediati in un’economia dove la pazienza è diventata virtù obsoleta e la gratificazione differita un concetto incomprensibile in una modernità che vive dell’imperativo assoluto del “tutto e subito”.

Uno scenario, in cui l’ecosistema dei social media ha inaugurato un modello ancora più pervasivo di qualsiasi sistema di controllo delle masse mai adottato. Iperluoghi progettati affinchè la nostra attenzione distratta, misurata in click e visualizzazioni, diviene contemporaneamente non solo metro e valuta primaria di monetizzazione ma addirittura criterio ultimo di valore esistenziale. Gli influencer, figura professionale inesistente fino a pochi anni fa, incarnano perfettamente questa nuova dimensione in cui l’autenticità relazionale viene sistematicamente subordinata all’imperativo della visibilità quantificabile, visibilità non sempre collegata a particolari doti innate o a capacità coltivate in anni di passione e di studio. L’ascesa sociale di questi personaggi, spesso fulminea quanto la loro caduta, testimonia l’emergere di un paradigma in cui la capacità di generare engagement diventa ben più remunerativa di decenni di studio o specializzazione professionale, e di come saper attirare l’attenzione sia oramai più importante dell’avere qualcosa da dire.

Allo stesso modo, anche nel panorama cinematografico assistiamo all’evoluzione del blockbuster come formula privilegiata, con un divario sempre più ampio tra l’entità dell’investimento produttivo e il valore artistico e culturale dei contenuti prodotti. L’impatto visivo immediato, supportato da budget sempre più vertiginosi, soppianta la complessità narrativa e riflessiva, trasformando il cinema in puro dispositivo di stimolazione sensoriale e potenziale veicolo di ascesa sociale per chi riesce ad entrare nel suo circuito produttivo spesso senza alcuna profondità artistica e/o ambizioni che vadano oltre la fama e il denaro immediati. In parallelo la produzione televisiva seriale ha invece generato meccanismi di fruizione compulsiva che fungono da dispositivi di sospensione temporanea della coscienza critica. Il binge-watching non è solo modalità di consumo, ma vera e propria condizione esistenziale che offre traiettorie di evasione dalla complessità del reale, mentre simultaneamente gli attori di queste serie diventano nuove icone culturali, con remunerazioni che eclissano ampiamente qualsiasi professione tradizionale.

Infine, il panorama musicale mainstream evidenzia forse nel modo più lampante la subordinazione del valore artistico a metriche puramente quantitative. Stream, visualizzazioni e engagement digitale determinano non solo il successo commerciale ma il valore stesso dell’espressione artistica, con conseguente omologazione espressiva e progressiva erosione degli spazi di sperimentazione autentica. La musica diventa non tanto veicolo di espressione quanto strategia di posizionamento in un mercato dell’attenzione sempre più saturo.

Questa cartografia, non certo esaustiva, dei nuovi ascensori sociali contemporanei rivela una profonda trasformazione nelle strutture di opportunità, dove i tradizionali percorsi istituzionalizzati cedono il passo a meccanismi fondati sulla capitalizzazione dell’attenzione e sulla mercificazione dell’esperienza umana nelle sue molteplici dimensioni. Ciò che emerge è un sistema in cui la visibilità non è più conseguenza del valore, ma sua premessa e condizione, in una circolarità che trasforma la spettacolarizzazione in fine ultimo dell’esistenza sociale.

In questo panorama, assistiamo a un fenomeno paradossale: le nuove generazioni sono ridotte a celebrità usa e getta, consumate e dimenticate alla velocità di un trend di TikTok, mentre le vecchie glorie continuano a suonare il disco della nostalgia, sfidando il ridicolo per continuare ad alimentare la macchina, fino alla propria morte e spesso anche oltre. Un circolo perverso dove il nuovo è rapidamente svuotato di significato e il vecchio si aggrappa disperatamente a un passato idealizzato, creando un vuoto culturale dove né l’innovazione, né la tradizione riescono a produrre nuovo valore che non sia meramente economico e di breve termine.

Questi fenomeni, tanto più problematici quanto più finiscono per rappresentare l’unico orizzonte di realizzazione e successo per molti, specialmente per i giovani, intrappolati nel precariato e nell’ingiustizia di un mondo che continua a premiare ed incentivare comportamenti dannosi e al limite della sociopatia. L’imperativo in questo mondo non è più “conosci te stesso”, ma “svendi te stesso” o quel poco che ne è rimasto e fallo prima che qualcuno lo faccia prima di te. Un ciclo infinito di consumo e produzione di contenuti sempre più effimeri, dove l’unico fine è il denaro, dove l’autenticità è sacrificata sull’altare della visibilità immediata e la profondità culturale è vista come un ostacolo al successo rapido in un mondo in cui la vera materia prima scarsa è l’attenzione.

Questa trasformazione, ovviamente, non è casuale. Come argomenta Byung-Chul Han in “Psicopolitica”, siamo passati da una società disciplinare a una società della prestazione, dove l’imperativo del “dover essere” è stato sostituito dal “poter essere”, dalla necessità di apparire. Dove ciò che appare è più importante di ciò che è. Abbiamo trasceso la contrapposizione essere o avere di Fromm per passare al “apparire per avere”. Nell’epoca della presunta autodeterminazione, questa apparente libertà di “poter essere” o meglio “essere percepiti” come si vorrebbe, nasconde però una forma più sottile e pervasiva di controllo, dove ognuno è in perenne competizione con tutti gli altri, dove tutti si affannano e sgomitano per un posto nel proscenio lasciando vuota la platea.

Così, mentre attraverso l’arroganza del denaro e del potere che la rappresenta, l’hybris dell’uomo contemporaneo ha raggiunto un nuovo apice, paradossalmente, la sua capacità di produrre senso sembra ai minimi storici. E quanto alla presunta “resistenza”, come nota Zygmunt Bauman, viviamo in un’epoca di “retrotopia”, dove l’incapacità di immaginare un futuro migliore ci porta a rifugiarci costantemente in passati idealizzati e mai accaduti né vissuti. Sì, perché è questa la cosa peggiore: vivere nella nostalgia ciò che non è mai stato e che non si è vissuto.

Questo declino della vita intellettuale e l’ascesa del capitale come metro universale di misura del valore e dei valori umani sono collegati a doppia mandata con il governo dello sviluppo tecnologico e con il soffocamento di un nuovo umanesimo. Come possiamo coltivare pensiero critico e visione a lungo termine in un mondo ossessionato dall’immediato e dal quantificabile? Come ricreare spazi di riflessione e dialogo in una cultura dominata dalla logica del profitto e della performance?

Appello per un nuovo umanesimo digitale
Forse, non a caso, è proprio nel momento in cui l’intelligenza artificiale minaccia di superare certe forme di cognizione umana che diventa più urgente che mai riscoprire e coltivare quelle qualità unicamente umane – empatia, pensiero critico, creatività, saggezza pratica – che, rebus sic stantibus, nessuna macchina può replicare ma che invece proprio l’AI può aiutarci ad amplificare. Se non vogliamo essere ancora volta vittime della “retrotopia”, l’umanesimo che dovremmo ricercare non può e non deve essere interpretato come una nostalgia, come un semplice ritorno al passato, ma deve essere una reinvenzione radicale. Un umanesimo che sappia dialogare con la tecnologia senza esserne soggiogato, che possa riaffermare il valore dell’umano in un’epoca post-umana. Deve farsi portatore di nuovi valori, di nuove categorie di pensiero e di nuove strade per perseguirli.

Ma perché questo non accade?

Il fatto è che continuiamo a leggere il mondo con categorie del passato, mentre la società che stiamo costruendo, pur riempiendosi la bocca di parole come integrazione, sostenibilità e resilienza, è in realtà profondamente insostenibile. Viviamo nell’insostenibile leggerezza di un’esistenza votata alla performance ad ogni costo. Molto di questo dipende sicuramente dal paradigma scientifico in cui siamo intrappolati.

Nell’epoca delle post-verità e del relativismo, di un’umanità espropriata del proprio ruolo di fulcro dell’universo e ridotta a evento casuale e marginale in un universo freddo, inanimato ed indifferente, ci sentiamo sempre più lontani dalla possibilità di una comprensione autentica di noi stessi e del mondo. In questo viaggio, dovremo essere pronti a mettere in discussione non solo le nostre tecnologie, ma anche i nostri desideri, le nostre abitudini, i nostri modi di vivere e lavorare. Dovremo esplorare nuovi modelli di abbondanza e libertà che vadano oltre il paradigma del consumo illimitato e della crescita infinita.

Forse, paradossalmente, è proprio abbracciando una certa forma di limite e frugalità che potremo riscoprire una libertà più autentica e una ricchezza più profonda. Come scrive Simone Weil: “Il vero modo di cercare è non cercare nulla, ma essere in uno stato di disponibilità assoluta per qualunque cosa possa presentarsi.”

L’uccisione del pensiero critico e l’impoverimento intellettuale
Un altro aspetto fondamentale del paradosso tecnologico è il modo in cui il sistema educativo e lavorativo contemporaneo tende a soffocare il pensiero critico e l’umanesimo, creando quello che potremmo chiamare “professionisti del centimetro quadro”. Come nel film “The Cube”, le persone si trovano intrappolate in una macchina di morte che le sta uccidendo e che le mette l’una contro l’altra, una macchina che loro stessi sanno di aver contribuito a costruire, ma di cui sono incapaci di cogliere il senso complessivo.
Questo fenomeno è strettamente legato alla trasformazione dell’educazione in una mera preparazione al lavoro. Come argomenta Martha Nussbaum in “Non per profitto”, l’ossessione per la crescita economica ha portato a un impoverimento dell’educazione umanistica, vista come superflua rispetto alle competenze tecniche richieste dal mercato.
Un esempio concreto è la crescente enfasi posta sulle materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) a scapito delle discipline umanistiche nelle scuole e nelle università. Questo si manifesta nella riduzione dei fondi per i dipartimenti di filosofia, storia e letteratura, mentre si moltiplicano i corsi di programmazione e business analytics.
Il risultato è la creazione di lavoratori iperspecializzati ma privi di una visione d’insieme, incapaci di cogliere le implicazioni etiche e sociali del proprio operato. Come osservava già Ortega y Gasset ne “La ribellione delle masse”, questo processo porta alla formazione di un “uomo-massa”, un individuo senza qualità, intercambiabile e manipolabile. Pensiamo, ad esempio, agli sviluppatori di social media che ottimizzano algoritmi per massimizzare l’engagement degli utenti, senza considerare gli effetti sulla salute mentale o sulla polarizzazione sociale.
Questo impoverimento intellettuale è ulteriormente aggravato dalle dinamiche di un sistema sociale in cui gli ascensori sociali sembrano sempre più bloccati. In un contesto in cui, come argomentato in precedenza, l’unico vero ascensore sociale rimasto sembra essere rappresentato dalle varie forme di non-lavoro votate alla distrazione di massa (si pensi al fenomeno degli influencer o dei content creator virali), viene meno ogni incentivo a coltivare il pensiero critico e la crescita personale. Un esempio lampante è il declino dell’interesse per la lettura di libri complessi a favore del consumo di contenuti brevi e frammentari sui social media.
Questa situazione non solo perpetua le disuguaglianze esistenti, ma mina alla radice la capacità della società di immaginare e costruire alternative. Se è vero, come argomentava Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”, che la società industriale avanzata creava un tipo di individuo “unidimensionale”, incapace di trascendere la realtà data e di concepire possibilità di emancipazione, è altrettanto vero che quella dell’informazione ne ha costruito uno “adimensionale”. Questo nuovo individuo si adatta ad ogni contenitore in cui viene riposto, è liquido, eterodiretto, e prende la forma che gli altri decidono debba avere. È un soggetto incapace di ribellarsi perché inconsapevole della propria condizione, come dimostrato dalla facilità con cui le persone accettano invasioni della propria privacy in cambio di comodità digitali o dall’adesione acritica a narrative semplificate diffuse sui social media.

Verso una educazione umanistica e trasformativa
Nella nostra epoca si sta affermando un modello di istruzione volto unicamente a preparare gli individui al mercato del lavoro. Tuttavia, un sistema educativo con questo obiettivo così limitato non può essere considerato veramente formativo. Assomiglia più ad un addestramento, che mira non a far crescere persone consapevoli, ma automi conformi alle esigenze del sistema, ingranaggi docili e acritici, degli utili idioti monodimensionali, privi di spirito critico e incapaci di contribuire alla società se non attraverso l’esecuzione di compiti e mansioni etero diretti di cui spesso e volentieri ignorano o scelgono di ignorare le implicazioni. Questo approccio non solo sminuisce la dignità e le potenzialità di ogni individuo, ma impoverisce l’intera società.

Per opporsi a queste tendenze e liberare le potenzialità emancipatrici della tecnologia, è indispensabile ripensare a fondo sia le istituzioni educative che la cultura del lavoro. C’è bisogno di un’educazione autenticamente umanistica, non solo come accessorio ma come fulcro della formazione di cittadini consapevoli e critici. Come affermava Paulo Freire ne “La pedagogia degli oppressi”, questo richiede lo sviluppo di una pedagogia “problematizzante”, che stimoli gli studenti a interrogare la realtà e a immaginare alternative. Un’educazione che non si limiti a trasmettere nozioni, ma che coltivi la capacità di fare domande, di decostruire le narrative dominanti, di pensare in modo indipendente.

Solo così le persone potranno rapportarsi criticamente alla tecnologia, orientandola verso il bene comune anziché esserne assoggettate. Allo stesso tempo, il mondo del lavoro dovrà offrire opportunità di realizzazione personale e partecipazione attiva, valorizzando l’autonomia e la responsabilità dei lavoratori. Per questa ragione, allo stesso tempo, dobbiamo ripensare la nostra cultura del lavoro al fine di valorizzare non solo la specializzazione tecnica, ma anche la creatività, la generosità, l’empatia, l’autonomia e la responsabilità sociale. Come argomenta Sennett ne “L’uomo artigiano”, abbiamo bisogno di recuperare l’etica del lavoro ben fatto, inteso non come mera esecuzione di compiti, ma come realizzazione di sé e contributo alla comunità.

In questo processo di trasformazione educativa e culturale, l’arte e l’immaginazione possono giocare un ruolo cruciale.

Autori come Herbert Marcuse o Italo Calvino hanno insistito sull’importanza dell’immaginazione estetica come forza di emancipazione e di trascendimento della realtà data. Per Marcuse, l’arte incarna il “Grande Rifiuto”, la capacità di negare l’esistente in nome di possibilità ancora inespresse. Attraverso la forma estetica, l’arte sospende le coordinate ordinarie dell’esperienza e apre uno spazio di libertà in cui si può prefigurare un’esistenza e una società altre. In modo simile, per Calvino la letteratura è uno strumento per “moltiplicare gli universi possibili”, per esplorare le potenzialità inespresse del reale. Attraverso il gioco combinatorio della scrittura, la letteratura ci permette di sperimentare mondi alternativi, di mettere in questione l’ovvio e il naturale, di arricchire il nostro senso del possibile.

In una società post-scarsità, l’arte potrebbe diventare non un lusso per pochi, ma una dimensione costitutiva dell’esistenza umana, una via per coltivare l’immaginazione come facoltà etica e politica. Si pensi ad esempio alle sperimentazioni delle avanguardie storiche, che cercavano di superare la separazione tra arte e vita, o alle pratiche artistiche partecipative e relazionali contemporanee, che fanno dell’arte uno spazio di incontro e di co-creazione.

O ancora, si pensi al potenziale delle nuove tecnologie digitali per democratizzare la produzione e la fruizione estetica, come nel caso dei software open source per la grafica e la musica, o delle piattaforme di pubblicazione e condivisione online. Naturalmente, il rischio è che anche l’arte venga sussunta nella logica del capitalismo digitale, trasformandosi in un contenuto tra gli altri nell’economia della (dis)attenzione. Ma proprio per questo è importante rivendicare il valore dell’esperienza estetica come fine in sé, come attività che ha senso al di là della sua valorizzazione economica.

Solo attraverso questa trasformazione educativa e culturale potremo formare individui capaci di orientare il progresso tecnologico verso fini umanistici, invece che esserne schiacciati e alienati. Come scriveva Maritain in “Educazione al bivio”, “Lo scopo dell’educazione non è quello di formare un lavoratore qualificato per un lavoro specifico, ma un uomo libero, aperto al senso dell’esistenza e capace di giudicare e discernere.” Per questa ragione. accanto all’immaginazione estetica, un altro fattore cruciale per lo sviluppo di un nuovo umanesimo è la capacità di coltivare visioni d’insieme e sintesi tra saperi diversi.

La necessità di figure di sintesi in un mondo complesso
In un mondo sempre più complesso e interconnesso, dove le sfide che affrontiamo – dal cambiamento climatico alle disuguaglianze sociali, dalla rivoluzione digitale alle crisi geopolitiche – richiedono una comprensione multidimensionale e interdisciplinare, abbiamo un disperato bisogno di figure di sintesi. Figure capaci di mettere in connessione saperi e discipline diverse, di cogliere le interazioni e le implicazioni sistemiche, di dare un senso al quadro d’insieme.

Possiamo pensare a queste figure usando la metafora dei terremoti. In sismologia, si distingue tra l’ipocentro – il punto di origine del terremoto in profondità – e l’epicentro – l’area in superficie dove il terremoto manifesta i suoi effetti. Allo stesso modo, possiamo parlare di “ipo-saperi” – conoscenze specialistiche in campi specifici – e di “epi-saperi” – visioni d’insieme che mettono in connessione molteplici ipo-saperi e ne esplorano le implicazioni su più vasta scala come layer diversi, senza soluzione di continuità, di un unico meccanismo di conoscenza e azione.

Mentre gli ipo-saperi sono essenziali per far avanzare la conoscenza in profondità, sono gli epi-saperi che permettono di valorizzare appieno questa conoscenza, di farla “risuonare” attraverso discipline e contesti diversi, di coglierne il significato più ampio per la società e per la condizione umana. Come un epicentro che abbraccia un’area molto più vasta dell’ipocentro, gli epi-saperi amplificano e diffondono l’impatto degli ipo-saperi.

Purtroppo, il nostro sistema educativo e accademico tende a privilegiare la specializzazione e la frammentazione del sapere, a scapito delle connessioni e della sintesi. Come argomenta Morin ne “La testa ben fatta”, abbiamo bisogno di una riforma del pensiero che ci permetta di affrontare la complessità, di “collegare i punti” tra saperi separati, di pensare in modo policentrico, multidimensionale e contestuale.

Questa riforma richiede non solo un cambiamento dei programmi e dei metodi educativi, ma anche una valorizzazione delle figure di sintesi – non dei “generalisti” superficiali, ma dei facilitatori consapevoli capaci di muoversi tra discipline diverse, di tradurre e integrare linguaggi e prospettive multiple, di cogliere le emergenze e le sinergie. Figure come i filosofi, gli antropologi, i sociologi, ma anche i divulgatori scientifici, i giornalisti culturali, artisti e intellettuali, dovranno trovare ampio spazio e divenire le sinapsi che collegano gli Ipo-saperi tra loro e con la società e con i problemi pratici con cui ci troviamo e troveremo quotidianamente a confrontarci.

Verso una ecologia dei saperi

Per coltivare figure di sintesi capaci di navigare la complessità contemporanea e liberare il potenziale emancipatorio della conoscenza, abbiamo bisogno di ciò che Santos ha definito “ecologia dei saperi” – non un semplice accostamento di discipline, ma una radicale riconsiderazione delle gerarchie epistemiche che hanno frammentato il nostro rapporto con il mondo. Un approccio che non si limita a tollerare la diversità delle forme di conoscenza, ma ne celebra attivamente l’intreccio e la fecondazione reciproca, promuovendo una traduzione costante tra linguaggi apparentemente incommensurabili: saperi accademici e sapienze popolari, scienze dure e discipline umanistiche, astrazione teoretica e intelligenza incorporata nel fare.

Questa ecologia non può realizzarsi attraverso semplici riforme cosmetiche delle istituzioni esistenti, ma richiede una democratizzazione profonda dei processi di produzione e circolazione della conoscenza. Accanto ai canali istituzionali tradizionali, sempre più simili a cattedrali vuote dove si celebrano rituali sempre meno significativi, emerge il ruolo cruciale delle reti e comunità di apprendimento orizzontale, spazi dove il sapere non è più concepito come possesso esclusivo ma come processo partecipato, dove l’autorità cognitiva non deriva da titoli e appartenenze formali ma dalla capacità di contribuire all’intelligenza collettiva.

Il movimento per la scienza aperta e le iniziative di citizen science rappresentano laboratori di questa trasformazione, sfruttando le potenzialità delle tecnologie digitali non come strumenti di atomizzazione sociale ma come infrastrutture di collaborazione e co-creazione. Piattaforme come Zooniverse o FoldIt ridisegnano i confini tra esperti e profani, permettendo a chiunque di partecipare attivamente alla mappatura delle galassie o alla progettazione di proteine, trasformando la ricerca da attività esoterica riservata a pochi eletti a impresa collettiva cui ciascuno può contribuire secondo le proprie capacità. Non si tratta di una semplice democratizzazione quantitativa dell’accesso alla scienza, ma di una trasformazione qualitativa della sua natura e delle sue finalità.

Analogamente, le esperienze legate ai beni comuni materiali – community gardens coltivati collettivamente negli interstizi urbani, repair cafés dove oggetti destinati all’obsolescenza vengono restituiti alla vita attraverso la condivisione di competenze tecniche – rappresentano laboratori di una conoscenza incarnata nelle pratiche di cooperazione sociale. Ciò che Harry Halpin ha definito “scienza del bene comune” non è un sapere astratto e separato dalla vita, ma un’intelligenza distribuita orientata alla soluzione di problemi concreti delle comunità, un sapere che si sviluppa attraverso l’interazione diretta con la materia e con gli altri, non attraverso la competizione per il riconoscimento accademico o il profitto economico.

Sarebbe ingenuo, tuttavia, idealizzare queste esperienze ignorandone limiti e contraddizioni. La citizen science rischia talvolta di ridursi a una forma sofisticata di crowdsourcing, dove i partecipanti forniscono manodopera cognitiva gratuita per progetti concepiti altrove, secondo logiche che rimangono opache. Anche i movimenti per la cura e la gestione dei beni comuni, d’altra parte, non sono immuni da dinamiche di potere e di esclusione che possono riprodurre al loro interno gerarchie tanto più insidiose quanto più invisibili, fondate su nepotismo e proselitismo, classismo culturale e disponibilità di tempo libero e dipendenza dalla capacità di attrarre fondi pubblici e grandi capitali privati che spesso si traduce in una non troppo velata etero direzione.

Nonostante questi limiti, tali esperienze prefigurano la possibilità di un’altra ecologia del sapere, in cui la conoscenza non è concepita né come proprietà privata da accumulare e monetizzare, né come astrazione universale separata dai corpi e dai contesti, ma come pratica situata e relazionale, come processo continuo di co-creazione tra soggetti diversi. In questo senso, esse incarnano quello che Pascal Gielen ha chiamato “commonism” – un orizzonte politico ed esistenziale che si distingue tanto dall’individualismo atomistico del mercato quanto dal collettivismo omologante dello stato. Un orizzonte in cui il comune – inteso non come semplice proprietà condivisa ma come tessuto vivente di relazioni, affetti e saperi che ci costituisce come esseri umani – diventa il principio organizzativo della vita sociale e il fondamento di una nuova ecologia delle conoscenze capace di rispondere alle sfide del nostro tempo.

L’equità e la bellezza come bussole

Per realizzare la visione di Keynes e Russell di una società liberata dal problema economico, dove le persone possano dedicarsi a ciò che dà senso e gioia alla vita, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Un umanesimo che metta al centro valori come l’equità, la reciprocità e la bellezza, invece che la mera crescita economica e la produttività fine a se stessa.
In particolare, l’equità, intesa non solo come uguaglianza di opportunità ma anche come giustizia nella distribuzione dei benefici del progresso tecnologico, è 1un prerequisito essenziale per una società post-scarsità. Come argomenta Raworth in “Doughnut Economics”, abbiamo bisogno di un’economia che rispetti sia i limiti ecologici del pianeta che i diritti fondamentali di ogni essere umano. Un’economia che miri non a massimizzare il PIL, ma a garantire a tutti l’accesso a ciò che è necessario per una vita dignitosa e appagante.

Ma l’equità da sola non basta. Abbiamo anche bisogno di riscoprire il valore della bellezza – non solo estetica, ma anche etica e spirituale – come bussola per orientare le nostre vite e le nostre società. Come sostiene Han ne “La salvezza del bello”, la bellezza non è un lusso superfluo, ma una necessità esistenziale. È ciò che dà senso e valore alla vita, ciò che ci eleva al di sopra della mera sopravvivenza e della routine quotidiana. In una società post-scarsità, dove i bisogni materiali di base sono soddisfatti, è la ricerca della bellezza – nella natura, nell’arte, nelle relazioni umane, nel lavoro ben fatto – che può dare significato e pienezza alle nostre vite. Come scriveva Rilke nelle “Lettere a un giovane poeta”: “Se il vostro quotidiano vi sembra povero, non accusatelo; accusate voi stessi di non essere abbastanza poeta per chiamare a voi le sue ricchezze”.

Un esempio illuminante di questa visione è la costituzione dell’Ecuador, che afferma di essere “una repubblica che persegue el buen vivir” – il buon vivere, la pienezza di vita. Non una repubblica fondata sul lavoro mercificato e sulla produttività, ma sulla realizzazione umana in armonia con la natura e la comunità. Una visione che sfida la “prigionia salariale” e l’ossessione per il lavoro “merce” che caratterizzano le nostre società, e che ci invita a ripensare radicalmente il nostro rapporto con l’economia e con la tecnologia.

In definitiva, realizzare la visione di una società post-scarsità orientata a fini umanistici richiede di rimettere in discussione non solo i nostri modelli economici e tecnologici, ma anche le nostre forme di conoscenza e di relazione. Richiede di coltivare un’ecologia dei saperi e dei valori capace di alimentare il cambiamento. Ed è qui che entrano in gioco il ruolo dell’arte, dei movimenti sociali e delle reti di apprendimento dal basso.

Prospettive economiche per i nostri figli e nipoti: un finale da scrivere insieme

La sfida che abbiamo di fronte è immensa, ma non impossibile. Realizzare la visione di una società post-scarsità, guidata da valori umanistici come l’equità e la bellezza, richiederà un profondo cambiamento della forma mentis, delle nostre istituzioni, delle nostre pratiche quotidiane. Richiederà di superare le resistenze degli interessi costituiti e delle abitudini consolidate, di osare immaginare e costruire un futuro radicalmente diverso.

Ma è una sfida che vale la pena di accettare, perché in gioco c’è nientemeno che il senso e la qualità delle nostre vite, la possibilità di realizzare appieno il nostro potenziale umano.
Come scriveva Bloch ne “Il principio speranza”: “Pensare significa oltrepassare. Così, però, il fattuale non viene né trascurato né superato solo nella sua datità…I contenuti propositivi della speranza, nella teoria-prassi concretamente mediata, sono quindi illuminati da contenuti della realtà passata e soprattutto presente inoltrata in avanti”.

È con questo spirito – di un pensiero che oltrepassa il dato senza ignorarlo, che illumina il futuro con la luce del passato e del presente senza farsi ingannare dalle ombre proiettate da quella luce sulla parete- che dobbiamo affrontare la sfida di un nuovo umanesimo tecnologico. Un umanesimo capace di mettere la tecnologia al servizio dell’emancipazione umana, di orientare il progresso verso fini eticamente e socialmente desiderabili, di costruire un mondo in cui l’economia sia un mezzo e non un fine, in cui la bellezza e l’equità siano le stelle polari del nostro cammino comune.

Per concludere (ringraziando chi è arrivato fino a qui)…

Le prospettive economiche per i nostri figli e nipoti non sono un destino scritto, ma una storia che stiamo scrivendo collettivamente con le nostre scelte e azioni quotidiane. Il futuro che Keynes e Russell immaginavano – di liberazione dal problema economico e di realizzazione umana – è ancora possibile, ma richiede una lucida re-immaginazione della nostra relazione con l’economia, la tecnologia e una profonda revisione del senso stesso del progresso.

Non si tratta solo, come a lungo in tanti hanno continuato a credere, di favorire la crescita economica o di sostenere l’innovazione tecnologica, ma di indirizzare la crescita e l’innovazione verso il bene comune, di sfruttare queste due forze per creare una società più equa, sostenibile e ricca di significato. Le vere “prospettive economiche” per le generazioni future dipenderanno dalla nostra capacità di superare il paradigma della scarsità e della competizione, per abbracciare un’economia dell’abbondanza condivisa, della sufficienza materiale e della cooperazione. Dipenderanno dalla nostra volontà di mettere l’umanità – con i suoi bisogni profondi di connessione, creatività e realizzazione – al centro del nostro progetto di civiltà.

In questo compito, un ruolo cruciale possono giocarlo i movimenti sociali e le reti di apprendimento dal basso, come quelli che stanno sperimentando nuove forme di mutualismo, di democrazia partecipativa, di condivisione dei saperi e delle risorse. Certo, sono esperienze ancora embrionali, spesso fragili e contraddittorie, soprattutto se viste incastonate nel quadro più ampio dell’attuale sistema da cui è per ora ancora impossibile prescindere, ma che, ciononostante, se viste nella loro natura inevitabilmente imperfetta e transitoria, mostrano in nuce la possibilità di un altro modo di vivere e di produrre, di stare insieme e di conoscere. Esperienze che sembrano convergere in quel “commonism” di cui parlava Gielen, un orizzonte in cui il bene comune diventa il principio organizzativo della vita sociale e il fondamento di un nuovo umanesimo.
Tocca a noi cittadini, con l’appoggio di intellettuali, artisti, attivisti, politici, imprenditori di far crescere e connettere tra loro queste esperienze, di criticarle, di discuterle, di demolirle, ricostruirle, ripensarle, rimodellarle, di migliorarle, di mantenere vivo il dialogo costruttivo, affinchè si possano tessere insieme formando col tempo la trama di un’alternativa possibile. Tocca a noi coltivare quell’ecologia dei saperi e dei valori che può nutrire il cambiamento, quell’immaginazione etica ed estetica che può ispirare un nuovo senso del possibile.

Sarà compito nostro scrivere e ri-scrivere insieme il futuro o almeno abbiamo il dovere e la responsabilità di provarci al massimo delle nostre possibilità. Un futuro in cui, come scriveva il poeta Rilke: “il nostro quotidiano” non sia “povero”, ma “ricco di poesia”; in cui la bellezza e l’equità siano “le stelle polari del nostro cammino comune”. Un futuro in cui i nostri figli e nipoti possano vivere liberi dal “problema economico”, e realizzarsi pienamente come esseri umani, radicarsi nel terreno, crescere e fiorire rigogliosi nell’etere e condividere i loro frutti.

“…è da tempo che abbiamo ritrovato in noi stessi ciò che in tanti credevano perso per sempre,
con lo stupore di averlo ritrovato esattamente dove lo avevamo lasciato
nessuno potrà più strappare via il ricordo di ciò che è stato, cavarci via la memoria dal petto,
perché questo è ciò che siamo e, consapevoli o meno, nessuno potrà mai più toglierci.
Dobbiamo ritrovare la libertà di raccontare noi stessi,
dobbiamo permetterci di percorrere nuove strade,
sbagliare, cambiare, cambiarci, cambiare gli altri e di farci cambiare a nostra volta.
E’ oggi che costruiamo la memoria di domani, le nostre vite sono il ricordo che altri dovranno custodire,
questa è la responsabilità che portiamo in grembo, l’unico dono che lasceremo al nostro passaggio”
Raul C. Camsoon – Poesie inedite (2014)