La questione degli obiettivi in economia è tanto importante quanto spesso trascurata. Uno dei miti fondanti del capitalismo moderno vorrebbe che in una economia di mercato l’unico obiettivo razionale ammissibile per ognuno di noi sia quello di ottenere il massimo beneficio per sé. Attorno a questo precetto si fondano, infatti, anche il concetto di efficienza e tutte le teorie su ciò che è socialmente desiderabile in economia.
Tuttavia per introdurre adeguatamente nozione di efficienza in ambito economico dobbiamo prima chiarire qual è l’oggetto di studio dell’economia moderna.
Secondo una delle definizioni più comuni, essa è la scienza che studia l’allocazione di risorse limitate tra usi alternativi al fine di massimizzare la soddisfazione (il profitto) dell’individuo, il cui agire individualistico e razionale porta alla migliore soddisfazione dei bisogni collettivi.
Ancora più esplicita la descrizione offerta dal dizionario Treccani che definisce l’economia come “l’uso razionale del denaro e di qualsiasi mezzo limitato, che mira a ottenere il massimo vantaggio a parità di dispendio o lo stesso risultato col minimo dispendio”.
In un’economia come la nostra, definita di mercato, il consumatore è il sovrano incontrastato, poiché è lui che attraverso il proprio agire e le proprie scelte di consumo a dirigere il mercato verso la massima efficienza.
A tal proposito, pur volendo per un attimo tralasciare il condizionamento sempre più efficace e costante a cui questo presunto sovrano è sottoposto e quindi il fatto che le sue decisioni siano sempre più spesso miseramente eterodirette, ciò che non possiamo fare a meno di ricordare è che il mercato non è, né potrà mai essere definito un sistema democratico. La sovranità non è distribuita secondo il principio di una testa un voto ma secondo quello di un Euro un voto, il che non pone chiaramente tutti sullo stesso piano.
Nonostante ciò, è proprio sull’inviolabilità del dominio del consumatore e sul potere esercitato attraverso i propri mezzi finanziari di consumo e sulla massimizzazione del profitto dell’individuo che si basa il concetto di efficienza in economia.
Per estensione, tutto ciò che non è efficiente da un punto di vista economico, non portando alla “migliore soddisfazione dei bisogni collettivi” attraverso i meccanismi di mercato, non potrà certamente essere definito socialmente auspicabile e desiderabile.
Tuttavia, verrebbe da obiettare che parlare di efficienza tout-court non ha senso se non in riferimento agli obiettivi. Infatti, dipendentemente dagli obiettivi individuali o collettivi che ci siamo posti, dovrebbe cambiare, almeno in teoria, anche ciò che possiamo o meno dichiarare razionale ed efficiente.
Poniamo che un ricercatore indipendente metta a punto per primo una cura contro il cancro. Se da bravo homo oecomicus il suo obiettivo fosse quello di massimizzare i propri profitti, il nostro ricercatore, non avendo competitor, dovrebbe, secondo un principio di agire razionale, brevettare immediatamente la cura e cederla al prezzo più alto che il mercato è disposto a riconoscergli, cercando di massimizzare i profitti. Ma se il suo obiettivo fosse, di contro, quello di contribuire a debellare il male del secolo, probabilmente, in barba all’homo oeconomicus che è in lui, andrebbe a condividere la sua scoperta con la collettività. Cederebbe così la cura ad un prezzo accessibile a tutti, accontentandosi di guadagni di molto inferiori, preferendo una vita forse meno agiata e lussuosa da un punto di vista materiale ma certamente più piena e serena sotto il profilo umano.
Quanti di voi riterrebbero socialmente desiderabile la scelta di condannare a morte milioni persone solo perché la decisione di cedere la cura a basso prezzo potrebbe rivelarsi, in un’ottica di mercato, un’opzione meno efficiente e razionale rispetto a quella di rendere la cura accessibile a tutti?
Quello che il buon senso comune si limita a rigettare, in economia sembrerebbe semplicemente essere razionale e desiderabile.
Nell’enumerare i principali tratti caratteriali del cosiddetto homo oeconomicus – individualista, avido, competitivo, materialista, dedito solo al profitto, disposto a mercificare tutto e tutti pur di raggiungere i propri scopi, etc – verrebbe davvero da chiedersi quanti di noi, potendo scegliere, vorrebbero accanto a sé e ai propri cari una persona simile.
Ciononostante, se rapportati al nostro sentire e agire economico, alcuni di questi comportamenti e atteggiamenti che in circostanze diverse ci farebbero inorridire, come in un assurdo sdoppiamento di coscienza, in una bizzarra e oscura catarsi, si trasformano d’incanto in qualcosa di assolutamente normale, banale e scontato. Lo stesso egoismo che caratterizza il nostro agire economico diviene in questo modo qualcosa di più spaventoso e inquietante di una scelta razionale, non un male necessario da perseguire anche contro la propria indole per il raggiungimento di un fine superiore (il benessere economico individuale e collettivo), ma una semplice legge di natura a cui nessuno può sottrarsi. Agiamo come agiamo semplicemente perché lo riteniamo essere nella normalità delle cose, facciamo quel che facciamo perché è ciò chiunque altro farebbe al nostro posto e viceversa. Il sentimento di pacificante normalità, l’assoluzione di noi stessi ancor prima che del prossimo, che caratterizza questa sorta di sospensione del giudizio etico e morale davanti alle questioni economiche è forse il segno, la cicatrice più profonda che il sistema socio-economico in cui siamo immersi ha lasciato sulla nostra umanità o in ciò che ne resta.
E’ così che, con il radicarsi nelle nostre vite del paradigma economicista, e con la parallela reificazione di pressoché ogni ambito della nostra esistenza, è venuto gradualmente a cambiare anche il dizionario dei valori di riferimento della società in cui viviamo. Nello scorrere di pochi decenni abbiamo visto principi come l’equità e la giustizia sociale venire trasfigurati e accomunati a un bieco sentimento di invidia sociale. Come se il desiderio di giustizia e equità non fosse altro che il vacuo lamento dei perdenti, il canto del cigno di chi non ce l’ha fatta. Allo stesso modo, esattamente secondo il medesimo schema, l’avidità diviene fiuto per gli affari, il cinismo pragmatismo, l’egoismo agire razionale, la ricchezza diventa un merito e la miseria una colpa e via discorrendo.
Accanto a quello dell’efficienza, un altro mito economicista entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo è quello legato alla concorrenza come meccanismo di riequilibrio del mercato e come unico motore capace di assicurare il progresso tecnologico, economico e sociale dell’umanità. Ma anche davanti a questo ennesimo assioma, una domanda sorge spontanea: quale libero mercato e libera competizione possono esserci in una gara in cui alcuni dei concorrenti partono (il più delle volte per meriti non propri) con un fisico allenato, l’attrezzatura giusta, le scarpe giuste, l’allenatore giusto e l’affetto del pubblico di casa ad un metro dal traguardo mentre il grosso del gruppo (anche in questo caso il più delle volte non per demeriti propri) parte da centinaia di chilometri di distanza, scalzo, denutrito e disorientato senza neppure aver capito di che competizione si tratti, né dove verrà disputata, tantomeno in cosa consista?
E ancora, siamo così certi che un paradigma basato sulla condivisione e sulla collaborazione, sostenuto dalle nuove tecnologie, sarebbe incapace di assicurare elevati livelli di progresso tecnologico, economico, sociale e culturale?
Purtroppo, a detta di tanti (per come vanno le cose, quantomeno per la maggior parte di coloro che prendono le decisioni tutte che contano) il nostro sistema, per poter essere efficiente e coerente con gli obiettivi dell’individuo e quindi, per trasmissione diretta, con quelli della collettività, non solo può, ma deve essere governato sulla base dei principi che abbiamo finora descritto. E, almeno a sentire la vulgata dominante, non sembrerebbe esserci un’alternativa percorribile che non finirebbe per mettere a rischio la stabilità economica e quindi il futuro di tutti noi.
Ma in quanto collettività, siamo davvero tutti così certi che questi principi siano davvero così razionali e socialmente desiderabili? Ma soprattutto in quanti si stanno occupando di produrre alternative documentate e credibili?
In termini di impatto sul nostro benessere individuale e collettivo, l’importanza e la rilevanza sociale dei problemi che una porzione sempre più rilevante dei nostri più prestigiosi scienziati, intellettuali, accademici, ricercatori si è ritrovata a studiare negli ultimi decenni, sembrerebbe, di contro, esser venuta decrescendo come una funzione negativamente accelerata, prossima a un asintoto di completa indifferenza.
E’ davvero desolante vedere come l’impegno, la creatività, la conoscenza profusi da alcune delle migliori menti della nostra generazione – o quantomeno dalle migliori menti che il denaro e il potere, direttamente o indirettamente, possano comprare sul mercato – siano ancora una volta orientati, spesso inconsapevolmente, alla costruzione delle fortune personali di pochi individui e alla manipolazione socio-economico e politica di persone, mercati, comunità e persino di intere nazioni.
Buona parte di loro rappresenta davvero il meglio che il mercato possa offrire. Lo dimostra il fatto che le strategie di manipolazione, così come le tecnologie sviluppate a loro corredo, sono sempre più pervasive e penetranti, capaci di lavorare ad un livello profondo, tanto complesse, sofisticate ed efficaci quanto surrettizie e apparentemente inoffensive e quindi ancora più semplici da inoculare. E’ così che, in gran parte dei casi, dissipati i fumi dell’entusiasmo, tra le maglie del tecnottimismo imperante che accompagna le loro scoperte, si fa largo inarrestabile un disumanesimo desolante, devastante e paradossale.
Anche in questo caso, mio malgrado, dovrei stupirmi solo per il mio stupore.
D’altra parte, in buona parte dei casi, l’obiettivo primario richiesto a questi individui straordinari, il metro attraverso cui saranno misurati e giudicati, è uno e uno soltanto: far sì che il denaro generi ancora più denaro.
Il risultato è che, buona parte di loro, dedica gli anni più produttivi della propria esistenza a sviluppare soluzioni tecnologiche altamente innovative (disruptive direbbero gli inglesi) per risolvere problemi di capitale importanza per il genere umano come quello di incrementare il numero di click, mi piace e interazioni sui social network – migliorando le conversioni degli inserzionisti (poco importa che promuovano grandi brand, il gioco d’azzardo, mele biologiche o cazzi di gomma) – o di speculare di più, più rapidamente e in modo più efficiente attraverso robotrader basati su complessi algoritmi di big data analysis e AI capaci di riconoscere dei pattern nelle micro oscillazioni dei prezzi degli stock exchange e di portare a termine decine di migliaia di contrattazioni al secondo.
Di esempi ce ne sarebbero tanti altri, forse troppi. Taylorismo digitale, riduzione della necessità di lavoro umano, disintermediazione di interi settori, precariato digitale… Siamo davanti a progressi tecnologico-scientifici eccezionali collegati a modelli di business sempre più efficaci e sofisticati tuttavia progettati con l’unico scopo di ridurre i costi (o di accollarli alla collettività) e di incrementare i profitti, concentrando sempre più potere nelle mani di pochi, lasciandosi spesso alle spalle dei costi sociali enormi accompagnati da una colossale perdita di senso.
Big Data, Intelligenza artificiale, IOT, zettabyte di dati, un mondo connesso in real time con una capacità di calcolo e di analisi impensabile fino a pochi lustri fa, un potenziale enorme in termini di miglioramento della vita di ognuno di noi. Le possibilità per ripensare la nostra società, la nostra economia, le nostre vite in un ottica di bene comune sarebbero davvero infinite. Ma ancora una volta la direzione sembra essere un’altra. Come spesso è accaduto in passato, forse dovremmo arrenderci al fatto che i frutti del progresso e della tecnica non nascono per essere distribuiti a diretto beneficio della collettività ma per restare saldamente nelle mani di pochi – monopoli e oligopoli – che li sfruttano a loro esclusivo vantaggio – massimizzare i profitti (a vantaggio di pochi), minimizzare i costi (a discapito di tanti) e incrementare la propria posizione dominante sul mercato e sulle nostre vite.
Questo non significa che le nuove tecnologie non abbiano comunque consentito (e ancora di più lo faranno in futuro) di accelerare i processi di innovazione e di miglioramento materiale delle nostre vite, ma nel relazionarci a loro non dovremmo mai dimenticare che la direzione verso la quale portano risiede nei valori di chi le progetta e di chi le utilizza.
Ma quindi, quali valori siamo in grado di esprimere come singoli e come società? verso quale direzione ci stanno portando questi valori?
Pensate, ad esempio, a come l’ingegneria finanziaria e la tecnologia abbiano favorito la singolare tendenza del cosiddetto capitalismo finanziario di prodursi e riprodursi in una crescita senza limiti. La sua ascesa negli ultimi 50 anni è stata inarrestabile. Al netto di cicli e turbolenze – a voler pensar male funzionali al percorso complessivo – la sua rilevanza e le sue dimensioni in ambito economico hanno assunto una dimensione imbarazzante, tracciando una traiettoria inedita nel cammino dell’umanità. Un percorso di emancipazione dalla incontrovertibile finitezza delle cose, dai limiti imposti dalla natura e dallo spazio fisico. Parabola che ha portato alla creazione di un iperluogo (i mercati finanziari) in cui il denaro produce denaro al servizio del denaro con l’unico fine di produrre ulteriore denaro. Un settore che si nutre di azzardo morale, di asimmetrie informative e di speculazione, un castello di carta che si regge su altra carta, capace di liberarsi dalle grigie leggi di natura e dal giogo a cui è sottoposta la cosiddetta economia reale, da quel peccato originale che è il legame della produzione con la realtà fisica e con gli oggetti che la compongono, con lo spazio-tempo finito delle nostre vite e con i limiti che questo comporta. Un processo, che nonostante i rischi impliciti ad esso connessi (oramai noti a tutti), come avrebbe detto LeFebvre, di fatto non può che “entusiasmare il capitalista la cui massima aspirazione sembrerebbe davvero essere quella di produrre denaro facendo a meno della triste necessità di produrre cose e di riuscire a venderle malgrado le difficoltà di mercato”.
Questa tendenza in fondo era chiara già nell’ultimo ventennio del secolo passato. Il concetto di crescita illimitata non avrebbe potuto fare a meno che infrangersi come un’esile onda su una ripida scogliera a picco sul mare. Una crescita infinita in un mondo finito non poteva che mostrarsi come un paradosso, una contraddizione in termini. Tuttavia, il mondo della finanza e del denaro, non agiscono nell’alveo di simili limitazioni. Uno spazio economico eterotopico fatto solo di numeri e simboli che, staccandosi dal proprio sottostante, può crescere ed espandersi in maniera infinita e indefinita. Se in fondo è vero come diceva Ferraris, riprendendo e ampliando Derrida, che “nulla di sociale esiste al di fuori del testo”, esso vive ed esiste esclusivamente nel testo, nutrendosi del testo e avendo il peso politico e finanziario per riscriverlo costantemente a proprio uso e consumo.
Politica e istituzioni sembrerebbero ormai irrimediabilmente subordinati a questo arbitro sovranazionale che porta il nome di “mercato”. Le reazioni dei “mercati” influenzano le decisioni politiche, guidano la programmazione di imprese e istituzioni.
Ciò che non è affatto chiaro è a cosa ci riferiamo quando parliamo di “mercati”. Per quanto spesso ci si rapporti a questi ultimi come ad un soggetto terzo, con un sentimento di alterità e di distacco, ciò che verrebbe da dire, è che, a ben guardare, tutti noi siamo il mercato.
E’ un po’ come quella vecchia storiella dell’operaio di rientro da lavoro che, imbottigliato nel traffico in autostrada, non fa che imprecare e lamentarsi senza riuscire a capire di essere anche lui parte del traffico. Morale della favola: il traffico di cui tutti ci lamentiamo siamo noi stessi.
Nel caso del mercato, tuttavia, questo può essere vero solo in parte. Infatti, se è vero, come detto, che il solo sovrano che il mercato riconosce è colui che gestisce il denaro (non importa che questo denaro sia il proprio, il più delle volte questi colossi gestiscono capitali di terzi), la gestione di gran parte dei soldi in circolazione è in mano ad uno stretto oligopolio di operatori finanziari ed assicurativi. Questi colossi, con il loro esercito di broker, armato di tutto l’azzardo morale, la tecnologia e la dotazione finanziaria necessari, sono in grado di condizionare profondamente il mercato e le scelte dei soggetti che ne fanno parte e quindi le vite di tutti noi.
Quali siano i valori e i principi che animano alcuni di questi soggetti e quindi i rischi a cui andiamo incontro ce lo dicono numerosi studi scientifici. Il più celebre, pubblicato nel 2011 da un gruppo di ricercatori dell’Università di San Gallo, in Svizzera, metteva a confronto un gruppo di broker, trader e agenti di cambio con un gruppo di disturbati mentali affetti da psicopatia, sottoponendo le due categorie ai medesimi test e simulazioni. I risultati sono stati preoccupanti, al punto da sorprendere gli stessi ricercatori.
I ricercatori elvetici hanno preso in esame l’impegno a cooperare e l’egoismo di 27 operatori professionisti, in gran parte impiegati presso banche svizzere, ma anche trader impegnati nel commercio delle materie prime e nella gestione dei cosiddetti hedge fund. Dall’altra lo studio ha valutato, secondo i medesimi paramenti, un gruppo di 24 persone affette da gravi problemi psichici e ricoverate in cliniche in Germania. Parallelamente l’approfondimento è stato svolto anche su una platea di controllo di 24 persone «normali». I tre gruppi hanno sostenuto varie prove, simulazioni al computer e sono stati sottoposti a test d’intelligenza. I test e delle simulazioni, basati sulla game theory, si rifacevano ai cosiddetti giochi a somma zero, ovvero situazioni in cui se uno dei soggetti guadagna qualcosa l’altro perde in maniera proporzionale.
Le evidenze emerse dai dati, anche in questo caso, hanno superato di gran lunga le aspettative del team di ricercatori messo insieme da Pascal Scherrer, esperto forense, e Thomas Noll, psichiatra e direttore del centro di detenzione svizzero Pöschwies, a nord di Zurigo.
Le risposte contenute nella ricerca hanno finito per evidenziare un dato molto preoccupante: in buona parte casi, i trader avevano mostrato un comportamento più egoista, aggressivo e distruttivo rispetto al gruppo di psicopatici che avevano completato lo stesso tipo di test, mostrandosi sensibilmente più inclini al rischio e all’azzardo morale».
Questo, come affermato dallo stesso Noll in più di una intervista, non significa certamente mettere sullo stesso piano gli operatori di Borsa con dei disturbati mentali, con degli psicopatici. Al contempo l’osservazione mette in luce in maniera innegabile come in questi soggetti la preponderanza di alcuni tratti comportamentali come egoismo, mancanza di empatia e aggressività, possa raggiungere un livello che rasenta e in alcuni casi supera il patologico.
La domanda che viene da porsi è come sia possibile pensare che la somma degli egoismi individuali possa produrre come risultato maggiore libertà e benessere per la collettività, quando invece ciò che accade è che la somma delle decisioni razionali di molti individui (razionali nel senso economico del termine, quindi egoistiche) finisce spesso per determinare disastrosi risultati collettivi (tensioni sociali, abuso e spreco di risorse naturali, sviluppo estrattivo, povertà diffusa, sfruttamento, bolle speculative…).
La speranza (o quantomeno, la mia speranza), è che, con la consapevolezza della natura interconnessa di tutte le cose, possa tornare a diffondersi capillarmente anche nella nostra ultraliberista e ipertecnologica società dei consumi quella che Adam Smith nel suo celebre “Teoria dei sentimenti morali” chiamava “simpatia” (dal greco συν πάθος, “sentire insieme”), non un semplice sentimento di compassione o di immedesimazione, ma qualcosa che lo stesso autore definisce in maniera certo poetica e suggestiva come la “modalità stessa attraverso la quale entriamo in risonanza con i sentimenti altrui”.
Forse, solo entrando in “risonanza” con i sentimenti altrui prenderemo finalmente coscienza del fatto che le sole forme di egoismo veramente razionali ed efficienti, e quindi anche le uniche socialmente desiderabili, sono la generosità e l’altruismo, perché solo attraverso la generosità e l’altruismo saremo in grado di rovesciare la piramide di Maslow in virtù di una presa di coscienza più ampia, non perché siamo intrinsecamente e atavicamente buoni ma semplicemente perché la simpatia, la generosità e l’altruismo sono la scelta più efficiente, razionale e conveniente per i singoli e per la collettività.
Solo un modello di società in cui ciascun individuo viene messo in condizione di perseguire l’autorealizzazione e di curare la propria autostima coltivando le relazioni con il prossimo in maniera sana e reciproca – e con loro il senso di appartenenza alla propria famiglia, alla propria comunità e per estensione al genere umano nella sua interezza – potrà veramente assicurare a tutti i suoi componenti un elevato grado di benessere e sicurezza materiale e il pieno e fisiologico soddisfacimento dei propri bisogni primari, essendo la soddisfazione di quest’ultimi nulla più che la naturale conseguenza del pieno soddisfacimento dei primi.
Ma se quanto appena descritto appare tanto scontato e naturale nella mente di chiunque, come mai abbiamo costruito una società tanto distante da questi valori?
Come affermava il filosofo Arthur Koestler, potremmo non essere troppo ottimisti sul futuro dell’umanità. Se infatti, come sembra, l’evoluzione può essere rappresentata come un enorme labirinto fatto di vicoli ciechi, non ci sarebbe davvero nulla di strano o di molto improbabile nell’assunto che l’attrezzatura originaria dell’uomo, sebbene apparentemente superiore a quella di qualsiasi altra specie vivente, contenga nondimeno qualche insito errore, qualche deficienza incorporata, che la predispone all’autodistruzione.
In fondo, creatività e patologia, generatività e autodistruzione, nel caso dell’uomo, potrebbero essere nulla più che due facce della medesima medaglia coniata nella zecca dell’evoluzione. Solo un bizzarro errore di fabbrica, l’ennesimo binario interrotto lungo il cammino dell’evoluzione, una storia forse già scritta di cui, tuttavia, non dovremmo mai smettere di provare a riscrivere il finale.