Money is (not) neutral. Parte 1: Il denaro alle origini delle origini.

Cesare Pavese, ne “Il mestiere di vivere”, in merito alla nascita della poesia, scrive: ”la poesia comincia quando uno sciocco guardando il mare dice «sembra olio»”.

Tale affermazione, come è chiaro a chiunque, non rappresenta una descrizione precisa ed accurata della bonaccia, ma, prosegue Pavese, “è proprio il piacere di avere scoperto quella somiglianza insolita, il solletico di aver fatto emergere un misterioso rapporto tra due cose apparentemente scollegate e distanti” a far sorgere il bisogno di condividere la scoperta, di “gridare ai quattro venti che lo si è notato”.

È in questo modo, continua Pavese, che nasce la poesia, da questo insopprimibile bisogno che si autoalimenta ad ogni nuova similitudine ad ogni nuova scoperta.

Tuttavia, fa notare il poeta, sarebbe altrettanto sciocco fermarsi a questa fase embrionale. Quella scoperta rappresenta solo l’inizio, infatti: “Cominciata la poesia, bisogna finirla…quella febbre prosegue, continua, non ci abbandona…”

Allo stesso modo la filosofia comincia quando uno sciocco (o forse un pazzo), comincia, con la medesima febbre che Pavese attribuisce alla poesia, a coltivare un senso di mistero e meraviglia nei confronti di ciò che ogni persona sana di mente considera troppo ovvio per preoccuparsene.

È esattamente questa febbre per la scoperta, questo senso di mistero e meraviglia che mi ha spinto, 15 anni orsono, ad avvicinarmi all’economia, in particolar modo ad interrogarmi sul denaro e sulla sua intima natura, rispetto al modo in cui lo percepiamo e al modo in cui condiziona le nostre vite.

La teoria economica afferma che il denaro rappresenti un fattore neutrale, tuttavia, come avrò modo di argomentare brevemente in questo scritto, la verità è che non lo è affatto. Non lo è da un punto di vista squisitamente economico, tantomeno lo è in ambito sociale e culturale.

Seppur si possa affermare, senza il timore di essere smentiti, chee non esista una definizione di moneta che sia applicabile a tutte le epoche e a tutte le latitudini (Bloch, 1954), nulla al mondo è tanto poco indagato e dato più per scontato della moneta, neppure tra gli economisti di professione. La maggior parte delle persone non solo ignora completamente il funzionamento del nostro attuale sistema monetario, ma probabilmente non si è mai interrogata minimamente sul tema. Dal nostro punto di vista, nell’immaginario collettivo, la sua concezione, ammesso che ce ne sia una, riteniamo non sia minimamente mutata nel corso dei secoli.

Nondimeno, ognuno di noi, indipendentemente da quanto a fondo si sia interrogato sul tema, è intimamente convinto di sapere cosa sia il denaro per il semplice fatto che lo utilizza ogni ogni giorno.

In realtà potessi chiedere ad ognuno di voi cosa è il denaro, esattamente come mi è accaduto in svariate di occasioni negli ultimi 10 anni, otterrei centinaia se non migliaia di risposte diverse.

Il rapporto che abbiamo con il denaro è simile al rapporto che Sant’Agostino aveva con il tempo. Agostino, nelle Confessioni, afferma rispetto al tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se interrogato dovessi rispondere, allora non lo so.”

La verità è che non è affatto necessario conoscere l’intima natura e il significato della moneta per utilizzarla ogni giorno, neppure per accumulare ingenti fortune o per fare denaro con il denaro.

Il cardine del problema è continuare a confondere la rappresentazione del valore, con il valore stesso, è rapportarsi al denaro come ad un oggetto, come ad una merce, come a qualcosa che esiste al di là di noi e della nostra capacità di produrre valore.

Ma su questo torneremo dopo, così come sul rapporto tra tempo e moneta.

Ma il denaro può essere considerato una merce, un oggetto come tutti gli altri?

Per spiegare la differenza che intercorre tra la proprietà di denaro e la proprietà di qualsiasi altro oggetto sono solito fare un esempio. Immaginate di prestare ad un vostro conoscente il vostro ombrello in una giornata di pioggia. Il giorno seguente, qualora questo conoscente si fosse dimenticato di restituirvi l’ombrello, non vi trovereste di certo in imbarazzo a ricordarglielo, ne si troverebbe lui in imbarazzo ad aver scordato di restituirlo o a sentirselo chiedere indietro. Immaginate ora, invece dell’ombrello, di avergli prestato una piccola somma di denaro. Immaginate una cifra persino inferiore al valore dell’ombrello. Quanto sarà imbarazzante per voi chieder conto dei soldi prestati e quanto lo sarà per il debitore sentirsi chiedere indietro il denaro?

Freud scrisse: “le faccende di denaro sono trattate dalle persone civili in modo del tutto analogo alle cose sessuali, con la stessa contraddittorietà, pruderie e ipocrisia.” A distanza di un secolo questa affermazione rimane valida solo in parte. Nel cosiddetto mondo occidentale sesso e denaro sono oramai due temi logori ed abusati, ampiamente sdoganati, di cui si parla in qualsiasi contesto senza troppe remore e con fin troppa ostentazione. Ciò che si continua invece a trattare con la medesima contraddittorietà, pruderie e ipocrisia è il dibattito sulla vera natura del denaro, dalla sua ontologia fino ai meccanismi attraverso cui viene emesso e distribuito. Non se ne parla, e basta. Ecco l’ultimo vero grande tabù della nostra epoca.

Ma quindi, che cosa è il denaro? Come e perché nasce?

Quando penso a questa storia e al come raccontarla mi torna sempre in mente l’incipit del Pinocchio.

Collodi scriveva: “C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.”

Con una piccola variazione la nostra storia breve storia del denaro potrebbe invece iniziare così: “C’era una volta… – Il baratto! – diranno subito i miei giovani economisti. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta il credito…”

Uno dei miti fondanti dell’economia che ancora oggi trova ampio spazio nei manuali di economia è che la moneta sia emersa a partire dal baratto per superare la famosa doppia coincidenza dei bisogni.

Questa concezione del denaro, che accomuna molti  illustri pensatori ed economisti nel corso della storia è frutto di una acuta deduzione che purtroppo si fonda su delle premesse fallaci.  Si tratta, di fatto, di una concezione priva di qualsiasi fondamento storico, sociologico, antropologico ed etnografico.

Tale credenza, invero ancora molto comune in ambito economico, rebus sic stantibus, andrebbe semplicemente considerata come falsa, almeno fino a prova contraria.

Ma questo, vista la puntualità con cui questa storia viene riproposta nei libri di testo su cui vengono forgiate le menti degli economisti di ieri, di oggi e di domani, non sembra essere considerato un fatto di rilievo.

Come affermava oltre un secolo fa l’importante storico dell’economia Alexander Del Mar,  la verità è che purtroppo “di regola gli economisti politici non si prendono la briga di studiare la storia della moneta; è molto più facile immaginarla e dedurre i principi di questa conoscenza immaginaria.” [Del Mar, 1895].

L’Isola di Yap

Il nostro viaggio nella scoperta della natura del denaro parte da qui.

L’isola di Yap nel Pacifico era, agli inizi del XX secolo, uno dei luoghi abitati più remoti e inaccessibili della Terra. Sconosciuta All’occidente Fino Al 1700 fu nei secoli successivi oggetto di una lunga disputa internazionale in merito ai diritti di sfruttamento delle risorse dell’isola. Ai primi del 1900 a spuntarla tra i vari contendenti fu infine la Germania che acquistò l’Isola per 3,3 milioni di marchi.

A rendere celebre l’isola fu il lavoro di William Henry Furness III. Il giovane William, era il rampollo di una famiglia molto in vista del New England, che dopo aver studiato e praticato la professione medica decide di dedicarsi agli studi antropologici.

L’antropologo si trasferì nell’isola per studiare la cultura, la lingua e gli usi e costumi della popolazione locale. Ciò che scoprì, insieme a centinaia di studi successivi presso altre comunità sparse su tutto il globo, avrebbe cambiato completamente la percezione nella cultura occidentale rispetto alla natura e alle origini del denaro.

L’economia di Yap era un’economia molto semplice basata su raccolta, caccia, pesca e agricoltura primitiva.

In una economia di questo tipo ci si aspettava di trovare quella primigenia civiltà del baratto vagheggiata da filosofi prima ed economisti poi nel corso dei secoli.

Tuttavia, con somma sorpresa dello stesso Furness III, l’economia dell’Isola non mostrava alcun segno (se non fortemente residuale) di baratto, a regolare gli scambi economici nell’Isola c’era invece un vero e proprio sistema monetario e creditizio.

Nel 1903 Furness fece una visita di due mesi a Yap, e alcuni anni dopo pubblicò una sommaria disamina dei suoi tratti geografici e sociali.

Quando il naturalista statunitense arrivò sull’isola di Yap, rimase colpito dalla solitudine e dalla mancanza di contatti con il mondo esterno.

Nonostante la sua apparente semplicità,  un’isoletta di piccole dimensioni con poche migliaia di abitanti, che poteva essere percorsa a piedi da una estremità all’altra in appena una giornata di cammino, Yap si rivelò di contro essere una società estremamente complessa, con un sistema complesso di caste, una ricca tradizione di danze e canti popolari e una religione locale dinamica e vivace, basata su un mito primordiale che attribuiva le origini degli Yapesi a un gigantesco cirripede attaccato a un tronco galleggiante.

Tuttavia, ciò che sorprese maggiormente Furness fu il sistema monetario altamente sviluppato dell’isola.

Il mercato di Yap era composto da pochi prodotti, come pesce, cocchi e un unico bene di lusso, il cetriolo di mare. In una simile economia arretrata, Furness non si sarebbe aspettato di trovare nulla di più progredito del semplice baratto. Invece, come osservò, «in una terra dove cibo, bevande e indumenti già pronti crescono sugli alberi e si possono raccogliere a volontà», pareva possibile che persino il baratto fosse una raffinatezza superflua. La verità si rivelò l’esatto contrario.

Yap aveva un sistema monetario altamente sviluppato.

Per Furness fu impossibile non notarlo appena messo piede sull’isola, perché la moneta stessa era estremamente insolita. Era composta dai cosiddetti RAI – «grandi, spesse ruote di pietra massiccia dal diametro variabile fra uno e dodici piedi, con un foro al centro di misura variabile a seconda del diametro della pietra, nel quale si può inserire un palo grosso e robusto abbastanza da sostenerne il peso e permetterne il trasporto». Queste monete di pietra erano state originariamente cavate a Babelthuap, un’isola di Palau distante circa 500 km, e a quanto si diceva erano state trasportate quasi tutte a Yap molto tempo prima.

Il loro valore dipendeva principalmente dalla dimensione, ma anche dalla finezza della grana e dal biancore della pietra calcarea.

Dapprima, Furness credette che quella bizzarra forma di moneta fosse stata scelta proprio per via, e non a onta, della straordinaria difficoltà che comportava maneggiarla: «quando occorrono quattro uomini forzuti per rubare il prezzo di un maiale, la ruberia non può che essere un’occupazione assai sconfortante », commentò l’antropologo.

Come si può supporre, infatti, i furti di RAI erano pressoché sconosciuti.

Ma con il passare del tempo, Furness osservò che il trasporto fisico di RAI da una casa all’altra era in effetti raro. Le transazioni avvenivano numerose, ma i debiti corrispondenti in genere venivano detratti reciprocamente, e il saldo scoperto riportato in vista di scambi futuri. E anche quando un conto richiedeva di essere saldato, di rado ciò avveniva tramite scambio fisico di RAI.

«È rimarchevole, di questa moneta di pietra», scriveva Furness, «che il suo proprietario non abbisogni di possederla. Dopo aver concluso un affare al prezzo di un RAI troppo grosso per poterlo facilmente dislocare, il suo nuovo proprietario si accontenta di buon grado del puro riconoscimento di detta proprietà, e senza puranco un segno a indicare lo scambio, la moneta rimane indisturbata nella dimora del proprietario precedente».

Quando Furness si mostrò meravigliato per questo aspetto del sistema monetario di Yap, la sua guida gli raccontò una storia ancor più stupefacente:
“[C’]era nel villaggio vicino una famiglia la cui ricchezza era indiscussa – riconosciuta da tutti – benché nessuno, nemmeno la famiglia stessa, l’avesse mai vista con gli occhi né toccata con mano; essa consisteva in un enorme RAI, la cui grandezza è nota solo per tradizione; poiché da due o tre generazioni esso giaceva, e tuttora giace, sul fondo del mare

Questo RAI, si scoprì essere naufragato in una tempesta durante il trasporto da Babelthuap, molti anni prima.

Nondimeno, riporta Furness: “Era opinione condivisa da tutti […] che la circostanza puramente accidentale del suo affondamento non meritasse neppure d’essere citata, e che poche centinaia di piedi d’acqua al largo non dovessero intaccarne il valore di mercato […]”

Questo aneddoto, nella sua semplicità, pone l’accento su un’aspetto molto importante del nostro rapporto con il denaro e sulla sua intima natura: il potere d’acquisto di quella pietra era valido non meno che se avesse posato visibilmente sul fianco della casa del proprietario, e rappresentava la ricchezza in potenza tanto quanto l’oro inattivo accumulato da uno spilorcio del Medioevo, o i dollari d’argento ammucchiati nella Tesoreria di Washington, che nessuno vede o tocca, ma che vengono scambiati proprio in forza di un certificato attestante la loro presenza.

Continua…