Da dove (ri)partire?

Nel contemplare ogni movimento di progresso, non illimitato nella sua natura, la mente non è soddisfatta soltanto dal fatto di tracciare le leggi del suo movimento; non può infatti fare a meno di porsi l’altra domanda: a quale fine? 

 Verso quale punto tende in definitiva la società con il suo progresso produttivo? 

Quando il progresso giunge al termine, in quali condizioni ci si deve attendere che lasci il genere umano?

 J.S. Mill

Ammobiliare una camera vuota è una cosa, continuare ad accatastare mobili fino alle cantine è un’altra. Se l’uomo non fosse riuscito a risolvere il problema della produzione, egli sarebbe rimasto in quelle dolorose condizioni di miseria che sono il retaggio più inveterato dell’umanità. Ma se egli non si accorge di avere risolto tale problema, e quindi non si rivolge ai compiti che l’attendono più avanti, si troverà di fronte a un altrettanto tragico destino.

J. K. Galbraith

A meno di due mesi dall’inizio del lockdown la situazione economica continua a precipitare nella totale mancanza di visione, mentre gli interventi programmati mostrano ogni giorno di più la loro totale inadeguatezza, mancanza di prospettiva e di coraggio.

Ciò che continua a sorprendermi di quanto stiamo vivendo è che, anche davanti a questa tragica emergenza sanitaria ed economica, non siano l’agire politico, l’interesse collettivo, l’etica o la morale a tracciare il perimetro e disegnare la traiettoria dell’azione economica, ma che, ancora una volta, siano i vincoli economici a disegnare il perimetro e il campo d’azione della politica, della morale, dell’etica, a limitarne l’orizzonte di intervento. 

Ancora di più mi lascia perplesso che questo rapporto di subordinazione e sudditanza ai diktat economicisti su qualsiasi altro aspetto dell’esistenza e dell’esistente, contrario ad ogni logica e buon senso, ormai non sorprenda più nessuno. Anzi, a sentire certi discorsi, probabilmente in tanti sarebbero sorpresi – se non contrariati – se accadesse il contrario. 

Sembra quasi che, rispetto alle scelte e all’agire economico, piuttosto che davanti ad un segnale di resa incondizionata della collettività, ci troviamo davanti ad una vero e proprio atto di fede. 

E, a tal proposito, lasciatemi dire, che nel lungo cammino dell’homo sapiens sapiens dagli altipiani dell’Africa Centrale fino ai giorni nostri mai idoli furono più falsi e mai fede fu più mendace e mal riposta. 

Dobbiamo fare più debito. Non sembrerebbero esserci altre soluzioni. Certo, da profani, verrebbe da chiedersi in che modo questa strana cura omeopatica – nel senso etimologico del termine – possa davvero funzionare. Se inoculare nel sistema un’altra massiccia dose di debito possa davvero farci recuperare il paziente oppure se non finisca per ucciderlo definitivamente. 

La verità è che, a dispetto dei crucifige sulla monetizzazione del debito, il vero paziente – il capitalismo per come lo conosciamo – sarebbe già morto da tempo, ben prima del Covid-19, se non fosse stato tenuto in vita artificialmente a suon di QE e di massicce dosi di indebitamento pubblico e privato. Un modello estrattivo che sistematicamente privatizza gli utili e socializza le perdite, tenuto in vita a dispetto di tutto e di tutti, non perché veramente utile e desiderabile, ma solo per mancanza di alternative.

J. M. Keynes era solito dire “il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.”

Sono passati quasi 100 anni e ancora non riusciamo a superare questa impasse. Continuiamo a subire gli effetti collaterali nocivi del capitalismo e ogni qual volta che si ripresenta una crisi – sempre più intense e frequenti – e il modello mostra crepe profonde come la fossa delle Marianne il nostro atteggiamento è sempre lo stesso. Totale negazione.  

Il tema è che – al di là delle chiacchiere più o meno dotte consumate nei salotti per bene, sui social o nei peggiori bar di Caracas – nei fatti a nessuno è concesso di mettere sotto accusa il sistema, di interrogarsi sui suoi limiti, sulla sua mancanza di resilienza, sulla sua insostenibilità, sulla sua indesiderabilità e detestabilità, continuiamo di contro a comportarci e ad agire come se il problema fossimo sempre noi e non il sistema. 

Ma forse il problema siamo davvero noi. Ma in senso differente. 

In tanti, in troppi, continuano a pensare che non possa e debba essere il sistema economico a dover cambiare le proprie regole al fine di servire gli interessi e gli obiettivi della collettività, ma che invece debba essere la collettività a doversi piegare alle cosiddette “leggi” economiche che lo governano. Secondo questa chiave di lettura siamo noi, come individui e come collettività, che, nel chiedere allo Stato, alla politica, alle comunità, a noi stessi di intervenire per limitare le mancanze, le iniquità, le ingiustizie, generate dall’abitudine ad anteporre costantemente le ragioni economiche al di sopra di quelle etiche e morali, continuiamo a corrompere l’infallibilità di un sistema diversamente infallibile. 

Anche ora, che, pur nella delicatezza e tragicità del momento, ci viene offerta l’opportunità storica di ripensare il mondo in cui viviamo, come collettività non stiamo spendendo neanche una minima porzione del nostro tempo e delle nostre energie a interrogarci su quale alternativa condivisa darci per il futuro. L’unica discussione che sembra valga la pena affrontare in questo delicato momento pare essere quale sia il più efficace tra gli strumenti di debito a nostra disposizione per prolungare l’agonia di questo organismo visibilmente malato.

Così, eccoci ancora una volta pronti a sacrificare ogni cosa, persino la nostra umanità, pur di salvare il sistema, senza la forza o peggio la volontà di produrre alternative, vittime del panglossismo, certi di dimorare nel migliore dei mondi possibili, rassegnati al fatto che non vi siano altri mondi possibili se non quello che abbiamo sempre conosciuto.

I miti fondanti del capitalismo neoliberista stanno crollando uno ad uno davanti ai nostri occhi, ma continuiamo a fingere che nulla sia accaduto, continuiamo a non vedere, o meglio non voler vedere. Continuiamo a negare, persino a noi stessi, anche la più chiara e lapalissiana delle evidenze: la mercatocrazia non è una è democrazia, non lo è mai stata, né mai lo sarà. In una democrazia i diritti di voto sono distribuiti secondo il principio egualitario di una testa un voto e non in base alla capacità di spesa di ciascun individuo. 

Per cui, in una mercatocrazia, chi controlla il denaro (direttamente o indirettamente) controlla i diritti di voto e chi controlla i diritti di voto controlla il mercato. In questo modo il mercato viene svuotato di senso e smette di servire l’economia cominciando a servire un padrone. Così, mentre il potere finanziario viene adoperato in maniera crescente per produrre denaro dal denaro – con cui acquistare beni tangibili in saldo durante le crisi sempre più frequenti – la produzione e l’economia reale vengono soggiogate, subordinate, tenute alle fame, con il guinzaglio corto, in balìa del predominio rapace di un’economia finanziaria sempre più ipertecnologica, ingegnerizzata, complessa e scollegata dal proprio sottostante, sempre più distaccata dalla realtà.

Dopo decenni di ingegneria finanziaria, questa totale perdita di senso e questo crescente distacco dalla realtà sono resi ancora più evidenti dai numeri. Negli ultimi 50 anni l’espansione del volume di investimenti nei mercati finanziari è stata esponenziale. Il totale delle transazioni su questi mercati ha superato oramai i 2.500.000 di miliardi di dollari, mentre il PIL mondiale supera di poco gli 85.000 miliardi di dollari.

Davanti a questo tipo di osservazioni la vulgata dominante ci ripropone sempre gli stessi triti e ritriti cliché: il supporto indispensabile della finanza all’economia reale, l’azione benefica di riequilibrio del mercato svolta degli speculatori, la concorrenza come meccanismo di selezione e motore del progresso, senza scordare la presunta capacità dei mercati di autoregolarsi e di ripristinare nel medio lungo periodo l’equilibrio…

Ma, ammettiamo per un attimo, per assurdo, che dovessero avere davvero ragione e che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili, vi siete mai chiesti quale sacrificio ci è stato richiesto sull’altare del mercato autoregolato (ammesso che questa figura mitologica esista davvero). 

Come ci ricorda Polanyi in uno dei passaggi più densi di “La grande trasformazione”, questo sacrificio è, al netto dei giudizi di valore,  troppo oneroso e certamente per nulla auspicabile: 

Un mercato autoregolantesi richiede niente meno che la separazione istituzionale della società in una sfera economica e una politica. […] Si potrebbe sostenere che la separazione delle due sfere ha luogo in ogni tipo di società in ogni tempo; un’inferenza del genere tuttavia sarebbe fallace. È vero che nessuna società può esistere senza un sistema di qualche genere che assicuri l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci, ma questo non implica l’esistenza di istituzioni economiche separate; normalmente l’ordine economico è semplicemente una funzione dell’ordine sociale nel quale esso è contenuto. Sia nella situazione tribale che in quella feudale o in quella mercantile, non esisteva nella società un sistema economico separato. La società del XIX secolo, nella quale l’attività economica fu isolata e attribuita a una particolare motivazione economica, rappresentò in realtà una discontinuità particolare.

La separazione tra sfera economica e sfera sociale rappresenta pertanto un unicum storico che ci viene di contro rappresentato anch’esso come un punto d’approdo naturale, come il frutto dell’evoluzione, come il prodotto del lento ed inesorabile lavorìo meritocratico del mercato. Lo stesso mercato è ritenuto una struttura innata da una larga parte  del pensiero economico moderno e contemporaneo che continua ad attribuire alla naturale propensione dell’uomo alla socialità, al dono, allo scambio (in senso lato) un significato ed un sapore mercantilistico privo di qualunque riscontro storiografico, antropologico e scientifico, esattamente come quella spesso vagheggiata civiltà del baratto dal cui superamento sarebbe poi emersa la moneta. 

Ma tornando alla supposta meritocrazia e razionalità del mercato e quindi alla sua presunta desiderabilità e necessità desidero riportare integralmente un passo tratto da “il mito del mercato globale” di Giulio Palermo che chiarisce molto bene come gli attuali meccanismi di mercato siano di base non inclusivi, non democratici e fondati ancora una volta sul potere finanziario.   

(…) La proposizione che il mercato è razionale e alloca le risorse in modo efficiente (il che lo rende desiderabile e necessario) è solo una mistificazione della teoria liberista. La realtà è un’altra e basta osservarla. È forse razionale che le risorse mediche vadano in ricerche biotecnologiche avanzate di cui beneficeranno magari 2000 persone al mondo, quando ogni anno 2 milioni e duecentomila persone (per la maggior parte bambini) muoiono di dissenteria solo perché hanno complessivamente da spendere meno delle prime 2000 persone [dati Unicef 2003]?

L’espediente teorico è semplice ed esplicito: la razionalità, l’efficienza, la desiderabilità sono tutte espresse a partire da curve di domanda date. La curva di domanda di un individuo, come vedremo meglio più avanti, dipende dai mezzi economici a sua disposizione e dalle sue preferenze. Così, chi non ha risorse monetarie che permettano di domandare beni o servizi sul mercato, non esiste dal punto di vista economico e non ha alcun diritto di essere preso in considerazione dall’economista borghese quando si parla di razionalità, efficienza, eccetera. Quello che conta non è infatti la domanda intesa come insieme di beni e servizi che ciascun individuo desidera avere per poter soddisfare i propri bisogni, ma la domanda solvibile, quella che si esprime soldi alla mano. I bisogni che non riescono ad essere espressi sul mercato per mancanza di denaro, di fatto non esistono secondo la definizione dell’efficienza della teoria borghese. Insomma, nella discussione della razionalità e dell’efficienza economica del capitalismo, gli individui sono presi in considerazione solo nella misura in cui essi siano in grado di comprare e di consumare. Questo principio costituisce il riferimento fondamentale di tutta l’economia normativa tanto che, secondo gli economisti borghesi, il consumatore deve essere considerato come il vero “sovrano” dell’economia.

Il principio della “sovranità del consumatore” afferma che la valutazione del funzionamento di un’economia debba dipendere unicamente dal grado di soddisfazione delle preferenze dei consumatori. Tale principio è, in effetti, un caso particolare del principio della “sovranità dell’individuo”. Quest’ultimo, a sua volta, si fonda su un duplice assunto: 1) il singolo individuo è il miglior giudice dei suoi bisogni (e delle sue preferenze) e dei mezzi più idonei a soddisfarli (il che esclude atteggiamenti paternalistici nella definizione di criteri sociali di valutazione del funzionamento del sistema); 2) le valutazioni sociali devono fondarsi unicamente sulle valutazioni espresse dai singoli individui (il che esclude atteggiamenti etici diversi dall’individualismo). Il principio della sovranità del consumatore restringe la sovranità dell’individuo all’atto del consumo, il quale, ovviamente, dipende dalle diverse capacità di spesa degli individui.

In questo modo, la capacità di un sistema di soddisfare le preferenze individuali espresse nelle curve di domanda (solvibile), diviene il solo obiettivo normativo della teoria economica e gli individui che non hanno risorse per esprimere le proprie preferenze sul mercato vengono implicitamente esclusi dall’analisi teorica. È sulla base di questo principio (quanto meno discutibile dal punto di vista della filosofia morale) – la sovranità del consumatore – che l’economia borghese definisce la razionalità, l’efficienza e la desiderabilità sociale. E, ovviamente, una volta assunta la sovranità del consumatore, ne deriva che tutto ciò che conta è soddisfare il consumatore-sovrano, cosicché il mercato, cioè il meccanismo che assicura la migliore soddisfazione del sovrano, ci viene presentato addirittura come necessario (…chissà poi perché il compito di un popolo dovrebbe essere quello di organizzarsi in modo tale da soddisfare il proprio sovrano!).

Ma se si comprende facilmente come tale principio sia difeso dal sovrano stesso (e dai suoi epigoni: gli economisti borghesi), non è facile capire perché anche quelli che potremmo chiamare i “sudditi”, quelli cioè senza risorse monetarie sufficienti ad esprimere sul mercato i propri bisogni, dovrebbero convincersi dell’importanza assoluta di soddisfare il sovrano. Ecco allora la spiegazione dell’economista borghese: nella società capitalista non c’è un sovrano unico, infatti, tutti domandiamo e tutti consumiamo (altrimenti moriremmo). E, difatti, si dovrebbe rispondere, nella realtà molti muoiono (proprio perché non riescono neanche a domandare). Ma, al di là dei casi estremi di individui che, non avendo mezzi economici per domandare, non sono neanche presi in considerazione dall’economista borghese (casi estremi che riguardano comunque diverse centinaia di milioni di persone su questo pianeta), il principio generale rimane quello secondo cui l’importanza di un individuo nella società è data dalla sua capacità di spesa.(…)

Se è vero come dice Palermo che l’importanza di un individuo per la società si misura attraverso la sua capacità di spesa, ciò che maggiormente dovrebbe farci riflettere rispetto a tutto quanto accaduto in questi anni, è che mai nella storia dell’umanità si era assistito a una simile concentrazione di tante e tali ricchezze e potere a livello globale nelle mani di così pochi soggetti.

Come emerge in maniera lapalissiana da uno studio dell’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia di Zurigo, pubblicato da New Scientist nel 2011, dal titolo “The Network of Global Corporate Control”, condotto su oltre 40.000 società transnazionali, appena 147 imprese nel mondo sono in grado di controllare il 40% di tutto il potere finanziario. Una rete di controllo composta da banche e multinazionali con un braccio finanziario capace di influenzare i mercati a proprio vantaggio, incrementando costantemente la propria posizione di monopolio ed oligopolio.

Si tratta di quella che Samir Amin definisce come “la supremazia degli oligopoli o monopoli generalizzati”, che ha provocato all’economia una crisi di accumulazione, che è allo stesso tempo una crisi di sotto-consumo e una crisi di capacità di profitto. Soltanto i settori  dei monopoli dominanti hanno potuto ritornare ad elevati tassi di profitto, distruggendo tuttavia la capacità di profitto e la redditività degli investimenti produttivi, degli investimenti nell’economia reale.

Una tale concentrazione ed interrelazione, per quanto garantisca apparentemente una certa efficienza economica (quantomeno per le 147 imprese, i loro manager ed azionisti ed il loro indotto) dall’altra rende il sistema economico globale incredibilmente fragile sottoponendolo ad un rischio di effetto domino, reso ancora più pericoloso dalle dimensioni di questi colossi finanziari. 

Stiamo ancora un attimo sul tema della concentrazione e sulla naturale tendenza del capitalismo neoliberista di fagocitare i piccoli e medi attori economici, favorendo invece la nascita ed il rafforzamento di monopoli e oligopoli, che, come il perpetuarsi di consorterie nobiliari, si nutrono di acquisizioni e fusioni. Queste operazioni riducono tanto il numero complessivo delle imprese quanto la concorrenza e creano condizioni di controllo del mercato.

L’umanità, forse in parte anche grazie al capitalismo (ma di questo non sono certo), ha compiuto dei passi da gigante sotto il profilo del progresso scientifico e tecnologico consentendo una crescita economica sostenuta, discreto livello di benessere (almeno per una certa porzione della popolazione mondiale) e una progressiva crescita dei livelli di produttività e di automazione dei processi; tuttavia, relativamente ai frutti di questo progresso, come società sembriamo essere ancora piuttosto lontani dall’aver avviato processi di effettiva democratizzazione di queste risorse. 

Prendete il caso dell’economia digitale. L’avvento di Internet, avrebbe dovuto/potuto comportare – almeno così era negli auspici di molti – un cambiamento epocale nei processi di democratizzazione, condivisione e accessibilità delle risorse e delle informazioni, un modello capace di stimolare la nascita di iniziative dal basso, la partecipazione e l’attivismo sociale, la circolazione in real time a livello mondiale di buone pratiche, idee e progetti, un movimento, anche di pensiero, capace mostrare che un’alternativa bottom up era possibile. E, per certi versi, almeno nella fase iniziale, è davvero stato così.  Almeno fino a che, fiutato l’affare, quell’istanza di cambiamento non è stata letteralmente soffocata dai grandi capitali e dalle bolle speculative. 

Oggi, a distanza di poco più di vent’anni, la verità, è che poco o nulla sembra essere davvero cambiato. Nel volgere di  pochi lustri anche il controllo della ricerca, delle tecnologie e del valore prodotto sul WEB, ha finito per concentrarsi nelle mani di pochi grandissimi e potentissimi monopoli e oligopoli globali, grandi società transnazionali, partecipate/controllate da grandi banche e fondi investimento, che hanno i mezzi economici e finanziari per accaparrarsi i migliori cervelli e le migliori tecnologie che il denaro possa comprare, ponendo insormontabili barriere all’ingresso a qualsiasi iniziativa nasca dal basso senza sufficienti capitali e l’appoggio del sistema finanziario. Come ha ribadito di recente Morozov: “non è un caso che sia necessario creare una startup ben finanziata per sfruttare appieno l’intelligenza artificiale e il cloud informatico, ma è il risultato di politiche deliberate. Il risultato è che gli sforzi più rivoluzionari, che potrebbero dar vita a istituzioni di coordinamento sociale senza fini di lucro, muoiono in fase embrionale. Non è un caso se da vent’anni non nasce una nuova Wikipedia.”

Ovviamente sono consapevole che la supremazia degli oligopoli e dei monopoli non rappresenti di fatto una novità rispetto al passato, se non fosse, come afferma Amin, proprio per il loro espandersi “generalizzato”. Per chiarire meglio il concetto. Dall’inizio del  Ventesimo secolo, vi sono stati attori dominanti in ogni sambito dell’economia, dal settore finanziario a quello industriale, dalla siderurgia, alla chimica, a quello dell’automobile e via discorrendo. 

Tuttavia, all’epoca, questi monopoli rappresentavano grandi isole in un oceano di piccole e medie imprese realmente indipendenti. Da una sessantina di anni a questa parte, assistiamo invece a una centralizzazione dei capitali che non stenterei a definire smisurata. Il magazine Fortune menziona 500 oligopoli le cui decisioni controllano tutta l’economia mondiale, dominando a monte e a valle i settori di cui non sono direttamente proprietari.

Prendiamo l’agricoltura ad esempio. Un tempo un contadino poteva scegliere tra diversi fornitori per la propria attività. Oggi una piccola e media impresa agricola deve vedersela a monte con il blocco finanziario delle banche da un lato e, dall’altro, con enormi monopoli di produzione del concime, dei pesticidi e degli OGM; Monsanto/Bayer è l’esempio più lampante. A valle, con le pressioni sui prezzi operate dalle catene della grande distribuzione. A causa di questo doppio controllo, la sua autonomia, la sua libertà di intrapresa e la sua capacità di reddito si riducono sempre di più, fino a schiacciarlo e trasformarlo in mero ingranaggio, ricattabile e sacrificabile.

Ma quali sono le ricadute di tutto questo sulle persone? Anche in questo caso non vi dirò nulla che già non sappiate: la risposta è semplice e sotto gli occhi di tutti, in 10 anni di crisi le disuguaglianze, sia a livello locale che a livello globale, si sono acuite esasperando la polarizzazione della ricchezza tra una piccola élite (poche decine di milioni di individui) ed il resto della popolazione mondiale.

Secondo un recente  studio dell’Overseas Development Institute (ODI) inglese oltre un miliardo e mezzo di persone al mondo vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Se si definisse povertà vivere al di sotto dei 5 dollari al giorno, allora sarebbero quattro miliardi ricompresi nella categoria, cioè due terzi della popolazione planetaria. Stando ai dati riportati in marzo da Forbes il patrimonio netto dei miliardari nel mondo ha raggiunto nel 2018 un nuovo record: 7,05 trilioni di dollari, circa la metà del PIL americano. Dal 2000 il loro patrimonio è cresciuto dell’800%. La quantità di ricchezza controllata dall’1% della popolazione, svela una ricerca Oxfam, ha ampiamente superato quella del restante 99%.

Che qualcosa non funzioni nell’attuale modello economico sembra non possa essere messo in discussione.  

Infatti, se il mercato, per come lo conosciamo, fosse davvero il sistema di allocazione ottimale di risorse scarse verso il numero maggiore possibile di individui di certo non ci troveremmo davanti alla situazione che stiamo vivendo. Eppure, come spesso accade, lo status quo viene difeso ad oltranza nonostante buona parte del blocco reazionario della popolazione non appartenga di certo a quel 1%.

Sembra che una parte consistente dell’umanità sia affetta da una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti di questo sistema e del paradigma economicista.

La sindrome di S. (cito testualmente la mia garzantina): “è una condizione psicologica che si verifica quando la vittima di un rapimento o di un episodio di violenza sviluppa dei sentimenti positivi nei confronti del rapitore o della persona che ha compiuto la violenza, arrivando addirittura a provare dipendenza psicologica o affettiva. Nei casi più estremi questo tipo di sentimento può trasformarsi in amore o in totale sottomissione volontaria, che porta la vittima ad allearsi con il suo assalitore o a provare nei suoi confronti un sentimento di solidarietà. Non è raro, inoltre, che nel caso in cui si manifesti questa condizione psicologica, la vittima possa arrivare addirittura a sviluppare un sentimento di complicità con il carnefice, aiutandolo a raggiungere i suoi obiettivi e vedendo un nemico nella polizia o in coloro che cercano di salvarla. Questa sindrome, secondo quanto stabilito dalla psicologia moderna, è una specie di meccanismo di difesa inconscio del cervello e permette alla vittima di non subire uno shock emotivo. La vittima, finisce dunque per provare dei sentimenti di identificazione con l’aggressore, arrivando addirittura a sentirsi parte di un “noi”, contrapposto a “loro fuori”.

Nel leggere questa definizione sono certo che anche voi non siate riusciti a nascondere a voi stessi di aver trovato una certa analogia tra i sintomi della Sindrome di S. e la strenua, talvolta arrogante, difesa dello status quo (non tanto e non solo a parole, ma soprattutto nei fatti) da parte della maggior parte di noi, indipendentemente dal livello di coscienza e dal grado di penalizzazione a cui lo stesso ci costringe come individui e come collettività.

Come spesso accade quando si toccano temi molto complessi, la trattazione rischia di essere lunga con il pericolo che la sintesi possa portarci a saltare passaggi fondamentali, a banalizzare o a semplificare concetti la cui comprensione necessita di un notevole grado di approfondimento; è altrettanto vero che, per venire a capo di questa situazione kafkiana, da qualche parte si dovrà pur partire. 

Come prima cosa, forse, dovremmo iniziare a prendere coscienza del fatto che tutti i sistemi, siano essi politici, teologici o economici, non sono altro che costrutti antropici che nascono per servire la collettività e non viceversa. Pertanto, quando un sistema si dimostra dannoso per la maggioranza di noi, favorendo sistematicamente l’1% della popolazione a discapito di tutto e di tutti – il restante 99% della popolazione, le generazioni future e la quasi totalità delle specie viventi sul pianeta – quel sistema, per il bene comune, deve essere sostituito.

Farlo ormai non è più una possibilità, ma una necessità.

Non possiamo davvero correre il rischio di ritrovarci, ancora una volta e ancora di più, ad essere vittime del paradosso di quella “miseria nel mezzo dell’opulenza” verso cui il paradigma economico dominante sembrerebbe condurci senza tregua.

A questo punto chiedo ai pochi coraggiosi arrivati sin qui nella lettura di fare un altro piccolo sforzo e di cercare di seguire il ragionamento fino alla fine, provando a ignorare per un attimo i propri pregiudizi e le proprie certezze acquisite.

Dovendo iniziare a pensare una riforma organica del sistema economico e sociale in cui viviamo, non possiamo che partire dalle basi e affrontare come primo tema il nodo della moneta e del credito.

Nonostante sia noto a chiunque che il credito e la moneta siano la base fondante del capitalismo finanziario, è altrettanto innegabile che pochi aspetti del mondo in cui viviamo sono altrettanto poco indagati e dati per scontati del credito e della moneta.

Prima di entrare in media res, fermiamoci per un secondo a riflettere, scevri da pregiudizi, sull’assurdità di quanto sta accadendo in queste settimane. La tenuta del sistema socio-economico nel suo insieme, il benessere della collettività, l’esistenza stessa di intere nazioni, dell’UE, minacciati non da un’invasione aliena, da una guerra nucleare, da una carestia senza fine, da una una pestilenza che ha dimezzato la popolazione mondiale, dalla mancanza di risorse, di materie prime, di grezzi, lavorati, semilavorati, di cibo, di acqua potabile, di medicinali, di igiene, di lavoro, di fabbriche, di energia o di chissà cos’altro. La nostra intera esistenza, i frutti del nostro lavoro, il futuro nostro e dei nostri figli, tutto ciò che amiamo, tutto ciò abbiamo costruito e che ancora potremo edificare insieme, minacciati da un male quantomeno effimero e astratto: la mancanza di denaro.

So che nel definire effimero questo male mi tirerò dietro le critiche e persino le risate di qualcuno. Ma questo non ci dovrebbe sorprendere affatto. D’altronde viviamo in mondo in cui, quando si parla di concretezza, è immancabile fare riferimento al denaro. Cash is King, ripetevano ossessivamente buona parte dei tanti VC o sedicenti tali con cui ho avuto l’occasione di avere a che fare in questi anni. E dal loro punto di vista, come non dar loro ragione. La mens pratica dell’uomo sembrerebbe non poter prescindere dal mettere in primo piano il denaro e la sua accumulazione quale fine ultimo del processo economico, se non della vita stessa. Tuttavia, come vedremo in seguito e ancora meglio nei prossimi articoli, dissipati i fumi di questa isteria di massa e le distorsioni interpretative legate ad interessi molto particolari di questa non cultura economicista diffusa e arrogante, non vi è in rerum naturae nulla di meno concreto e di più astratto del denaro. 

Come dicevamo, purtroppo il sistema monetario e le regole che lo governano sono uno dei temi più affascinanti e al contempo meno dibattuti della storia, anche tra gli economisti di professione. Se lo storico dell’economia ed esperto di storia della moneta Alexander Del Mar già nel 1895 evidenziava come: “Di regola economisti politici non si prendono il disturbo di studiare la storia del denaro; è molto più facile immaginarla e dedurre i principi da questa conoscenza immaginaria”, anche Carlo Cipolla, uno dei più importanti storici dell’economia del secolo scorso, non perdeva occasione per ricordare ai propri lettori che la maggior parte degli economisti non ci capisce nulla di moneta. In effetti, spesso gli unici ad essersi occupati compiutamente del tema sono gli storici dell’economia, insieme ad antropologi, archeologi, etnologi, giuristi, sociologi, filosofi. Ma, come dimostrano i fatti, nessuno si sogna mai di tenere in considerazione la loro opinione sul tema quando si tratta di addentrarsi nelle questioni pratiche e di parlare di riforme.

Seppur si possa affermare, senza il timore di essere smentiti, che non esista una definizione di moneta che sia applicabile a tutte le epoche e a tutte le latitudini (Bloch, 1954), nulla al mondo è dato più per scontato della moneta. La maggior parte delle persone non solo ignora completamente il funzionamento del nostro attuale sistema monetario, ma non si è probabilmente mai interrogata minimamente sul tema. Nell’immaginario collettivo la sua concezione, ammesso che ce ne sia una, non è minimamente mutata nel corso dei secoli. 

Il colossale castello di carta (e bit) su cui poggiano le immense fortune (di pochi) e la miseria (di tanti) è stato gradualmente privato del sottostante che ne giustificava l’impostazione formale e quindi la sostanza. Dapprima hanno sostituito le fondamenta del sistema (la copertura aurea) con una riproduzione in scala di quelle fondamenta, poi con un’immagine evocativa delle stesse (il dollaro) e infine, svanita anche l’ultima traccia di quelle antiche vestigia, il sistema ha continuato a reggersi solo sul ricordo di quelle fondamenta – edificate nel nome di un dogma (la copertura aurea) difeso per secoli al costo di gravi crisi, fame, guerre, povertà e decine di milioni di morti. 

Dalla sospensione degli accordi di Bretton Woods nel 1971 – a distanza di 50 anni si può ancora parlare di sospensione? – che ha sancito la fine del Golden Exchange Standard, tutte le valute di tutte le nazioni del mondo hanno perso ogni tipo di copertura e sono letteralmente create ex-nihilo, non a caso si parla di moneta “fiat”. Eppure abbiamo proseguito imperterriti a comportarci come se questo enorme cambiamento non sia mai avvenuto. 

Un aspetto ancora meno conosciuto del nostro sistema monetario e creditizio è che, contrariamente a quanto buona parte della popolazione crede (compresi molti funzionari di banca), sono gli impieghi a creare i depositi e non viceversa. Se infatti la moneta emessa – a fronte dell’acquisto di titoli – dalle BC rappresenta un debito dell’emittente verso il portatore, il resto della moneta in circolazione viene emessa dalle banche commerciali nell’ambito della propria attività creditizia attraverso il cosiddetto meccanismo della riserva frazionaria. Senza volerci addentrare troppo – per ragioni di spazio e di sintesi – nei meccanismi tecnici legati alla moneta endogena, quanto appena affermato ha un risvolto pratico molto semplice: ogni euro, dollaro, yen in circolazione rappresenta il credito di qualcuno e il debito di qualcun altro.  In altre parole, se non ci fossero debiti, non ci sarebbe moneta in circolazione. 

Secondo Galbraith questo concetto crea una sorta di corto circuito nella mente delle persone che tendono a rigettare questa idea a priori, mostrando un atteggiamento verso il sistema monetario simile a quello riscontrabile quando, nel caso del cinema o nella letteratura di fantasia, si parla di sospensione dell’incredulità.

La moneta è trattata quasi sempre come un fatto bruto, direbbe Searle, come qualcosa che esiste al di là di noi e della nostra esistenza, alla stregua di una montagna, del vento, delle stagioni, delle maree. Chiaramente, approcciarsi al denaro in questi termini significa prima di tutto perdere di vista il primo e più importante assunto sulla sua natura: la moneta, in tutte le sue forme e peculiarità, è una brillante invenzione dell’uomo, è un costrutto antropico e in quanto tale, per il bene comune può essere cambiato.

Come rilevano in un loro articolo i Professori Biagio Bossone e Massimo Costa, a dispetto dei profondi mutamenti intervenuti nel sistema monetario negli ultimi 50 anni, i meccanismi di contabilizzazione legati alle dinamiche di emissione di denaro da parte delle banche centrali, dei governi e del sistema bancario non sono minimamente cambiate. In termini di rappresentazione contabile essi si comportano come se il denaro – emesso sotto forma di monete, banconote e riserve – fosse un debito dell’emittente nei confronti del possessore – cosa vera nel caso dell’emissione di moneta scritturale da parte del sistema bancario – ma quantomeno discutibile nel caso delle emissioni da parte della BC e del governo. Pensateci bene, cosa mai dovrebbe restituire la BC per estinguere quella obbligazione se l’unico mezzo legale di estinzione dei debiti è quello stesso denaro su cui essa stessa ha il monopolio di emissione? Il portatore chiede il rimborso dei suoi 100 Euro alla BC che li rimborsa con 100 Euro?

Al fine di chiarire meglio il concetto riporto per esteso l’opinione dei due docenti:

“Come la Banca d’Italia documenta nelle sue informazioni statistiche sul debito pubblico, le monete metalliche, che pure hanno corso legale, sono considerate passività dello Stato che le emette e sono conteggiate ai fini del debito. Analogamente, le banconote emesse dalla banca centrale e, per estensione, le riserve dalla stessa create – che peraltro rappresentano la gran parte della base monetaria di ogni economia contemporanea – costituiscono passività della banca centrale che le emette e sono contabilizzate come debito di quest’ultima nei confronti dei possessori.

Tuttavia, alla luce di una corretta applicazione dei principi di contabilità generale, la configurazione formale della moneta legale come “debito”, ancorché fondata su un indubbio “principio di legalità” (in prima battuta la moneta emessa è debito “perché così dice la legge”), lascia non poco perplessi. Il debito comporta un rapporto obbligatorio tra le parti e, sebbene il nostro codice civile non definisca espressamente l’obbligazione giuridica, l’intera giurisprudenza mondiale considera ancora valida la definizione insuperata del corpus juris giustinianeo:

«Obligatio est juris vinculum, quo necessitate adstringimur alicujus solvendae rei secundum nostrae civitatis jura»

Ci chiediamo, pertanto, a quale adempimento possa costringere lo Stato il possessore di monete metalliche, a quale adempimento possa costringere la banca centrale il possessore di banconote, ovvero ancora a quale adempimento possa costringere la banca centrale una istituzione finanziaria che detiene riserve presso la stessa. Ci riferiamo a queste tre “specie” monetarie, classificate come “debiti” nelle” rispettive contabilità, perché sono quelle oggi considerate a tutti gli effetti vera e propria “moneta legale”, moneta cioè cui l’ordinamento giuridico riconosce il potere di estinguere le obbligazioni in denaro, e che quindi, in virtù di tale potere, non reca per l’ente che la emette alcun obbligo di conversione in forme di valore di cui esso non sia direttamente produttore.”

Proseguono i due docenti:

“Ma che senso ha, oggi, parlare di “debito” in regimi monetari che non comportano per le banche centrali né obblighi di conversione della moneta emessa in altre forme di valore (che non siano sempre passività delle medesime) né impegni di restituzione a favore dei possessori.

Insomma, la moneta legale “era” debito in epoche passate, ma non lo “è” più oggi, mentre pare che l’allocazione storica non sia stata più messa in discussione. Infatti, semplicemente in ragione della sua origine storica e per inerzia contabile, la moneta legale resta ancor oggi contabilmente allocata tra i debiti della banca centrale (e, per identica ragione, come ci ricorda la Banca d’Italia, le monete metalliche in quella dello Stato).

Tuttavia, tale moneta, ancorché costituisca una “passività” della banca centrale che la emette (nel senso puramente tecnico di “fonte” di finanziamento, allocata nella sezione “Avere” del suo stato patrimoniale, in contrapposizione agli “impieghi” posti nella sezione “Dare”), non è affatto da considerarsi debito (e cioè un’obbligazione cui fanno riscontro diritti di credito), bensì una forma di vero e proprio “capitale netto” (e cioè una passività cui fanno riscontro diritti di proprietà).

In  questo caso, i diritti di proprietà sulla moneta sono i medesimi di quelli relativi ai beni che conseguono gli acquirenti a fronte dei ricavi di vendita dell’azienda che li colloca sul mercato. Da un punto di visto economico, collocare sul mercato un bene fisico cui corrispondono determinati benefici per l’acquirente, o collocare uno strumento che dà un beneficio sui generis all’acquirente – quello di poter legalmente adempiere ad ogni sorta di obbligazioni – non sono fenomeni poi così diversi l’uno dall’altro.

Quindi, dire che la moneta legale non è un debito della banca centrale, ma una parte del suo capitale netto, non deve essere inteso nel senso che chi riceve moneta legale diventa proprietario della banca centrale (come colui che riceve le azioni  di una società), ma nel senso che l’emissione di moneta legale equivale alla vendita di un bene che conferisce al possessore il diritto “assoluto” (non “relativo”, o di obbligazione) di proprietà su una quota corrispondente della ricchezza nazionale.

Se questo beneficio acquisito si potesse far valere solo presso l’emittente, si tratterebbe certamente di un debito, e quindi – da un punto di vista giuridico – di un diritto relativo con le sue due consuete polarità (un creditore da una parte e un debitore dall’altra). Se, invece, il beneficio acquisito si può far valere erga omnes, cioè nei confronti di tutti i consociati, da un punto di vista giuridico si tratta di un diritto assoluto, di cui l’emittente non risponde più di quanto non facciano tutti gli altri consociati che sottostanno al medesimo ordinamento giuridico.

Nel caso dell’emissione di nuova moneta legale da parte di un ente pubblico, la variazione economica positiva che ne consegue va a beneficio dei proprietari dell’ente emittente medesimo: i cittadini. La moneta legale è “capitale” per chi la emette e non debito. E, più precisamente, poiché il capitale si compone di capitale proprio e di utili non distribuiti, la moneta legale è assimilabile ai secondi e non al primo, che invece corrisponde all’emissione di azioni.

È ben noto al “falsario” che la stampa di una banconota rappresenti un “ricavo” per la sua impresa, il cui patrimonio netto ne risulta immediatamente accresciuto senza che maturi alcun debito. Parimenti, per chi falsario non è, e  stampa banconote o conia monete legittimamente – tipicamente lo Stato e la banca centrale –  l’emissione rappresenta un ricavo che contribuisce all’utile aziendale.”  

In conclusione: 

“Con particolare riferimento alla finanza pubblica, è auspicabile che il nuovo approccio induca a depurare i bilanci degli Stati e delle banche centrali dalle “incrostazioni storiche” ormai del tutto prive di senso e che oggi costituiscono un vero e proprio falso in bilancio. Considerare la moneta come debito anche quando non lo è, e immetterla come tale nel sistema, eleva artificialmente il costo di funzionamento dell’economia, e il servizio del debito che ne consegue drena liquidità dal sistema, sottrae risorse reali dall’economia e richiede l’emissione periodica di nuovo debito affinché l’economia possa funzionare. La capacità di crescita economica viene erosa da tale meccanismo, allorché l’accumulazione di debito impone obblighi di contenimento e aggiustamento. Finora questa contraddizione non sembra avere incontrato soluzioni serie: non lo sono certo l’aggressione fiscale dei patrimoni e dei redditi delle economie più deboli, o lo smantellamento dell’intera spesa pubblica, sempre a danno di settori e delle aree più vulnerabili, non solo per gli effetti sociali devastanti che essi provocano, ma anche perché dimostrano di non funzionare affatto.”

Dovrebbe apparire chiaro a tutti che, quanto appena riportato, certamente in termini assoluti, ma ancora di più considerata l’attuale situazione contingente, non è un fatto di secondaria rilevanza. Infatti, quando si parla di moneta: forma e sostanza spesso si equivalgono. 

Ma quanto potrebbe cambiare il mondo in cui viviamo se si decidesse finalmente di procedere a una revisione di quei meccanismi contabili descritti in precedenza, che, come abbiamo visto, risentono ancora in maniera piuttosto evidente delle vestigia di schemi e modalità legate a un passato non più attuale? 

Riallineando l’attributo di “fiat money” della moneta contemporanea e le sue modalità di contabilizzazione ed emissione, si andrebbe certamente a modificare anche la natura stessa della moneta. A quel punto, non dovrebbe essere difficile considerare la moneta alla stregua di una utility (al pari dell’acqua, dell’energia, del gas), o, cosa ancora più auspicabile nel prossimo futuro, di un vero e proprio “common”. Questo processo potrebbe essere accompagnato – come sostenuto da un numero sempre maggiore di economisti – da una separazione della funzione di emissione e gestione dell’offerta di moneta da quella di gestione del credito, assegnando la prima al monopolio pubblico di Stati e Banche Centrali, mentre la seconda sarebbe appannaggio delle banche commerciali e andrebbe nella direzione di specializzazione della loro attività verso la mera intermediazione creditizia e la gestione del risparmio (con riserva piena). 

Questo tipo di impostazione avrebbe come principali risvolti:

– Impedire che il sistema bancario vada ad incrementare a piacimento, in funzione dei propri obiettivi di fatturato, l’offerta di moneta tramite gli impieghi attraverso l’emissione di moneta scritturale durante le fasi di esplosione del ciclo economico, per poi andare diminuirla drasticamente attraverso la distruzione questi fondi durante le sue successive contrazioni, consentirebbe un miglior controllo dei cicli di credito, che sono spesso indicati come la principale fonte delle fluttuazioni del ciclo economico.
– Permettere al Governo (per conto e in favore della collettività) di beneficiare di denaro emesso in maniera diretta e senza interessi, piuttosto che prendere in prestito dal settore privato quello stesso denaro a interesse, porterebbe ad una drastica riduzione della spesa per interessi che grava sulle finanze pubbliche – guardate ad esempio l’Italia, dopo 20 anni di bilanci con saldo primario in attivo ha visto crescere a dismisura il proprio debito per effetto della sola componente legata agli interessi e agli interessi compositi – e a un forte ridimensionamento del debito netto, dato che il denaro irredimibile emesso dal Governo e BC rappresenterebbe, come abbiamo visto, un’attività per l’emittinte e non più un debito.
– Giacchè l’emissione di tutta la moneta in circolazione sarebbe totalmente affidata al Governo e alla BC, l’ampliamento dell’offerta di moneta in favore dell’economia non richiederebbe, come di contro accade oggi, la simultanea creazione di gran parte dei debiti privati sui bilanci delle banche, in questo modo potremmo assistere ad una provvidenziale riduzione non solo dell’indebitamento del settore pubblico ma anche dei livelli di indebitamento privato e ad una crescita del risparmio netto.

In questo modo, non solo il “reddito” derivante dalla “produzione” di moneta andrebbe completamente a favore della collettività (in termini di servizi, welfare, spesa in istruzione e cultura, sanità, occupazione, riduzione delle tasse…) – annullando alla base buona parte del dibattito sul debito pubblico e sulla sua sostenibilità – ma ci ritroveremo con un sistema finanziario più stabile, caratterizzato da una diminuzione complessiva del rischio legato agli attuali cicli di boom-bust guidati dell’espansione e contrazione prociclica del credito da parte del sistema bancario, con un tessuto produttivo che, liberato dalle frizioni legate dalle difficoltà di accesso al credito e dai costi di un livello di indebitamento troppo elevato, protrebbe finalmente liberare risorse per l’innovazione e la ricerca ed esprimere al meglio tutto il suo potenziale.

Ma come sempre, i risvolti economici, per quanto importanti, sono solo la punta dell’iceberg. Attuare questo tipo di riforma ci consentirebbe di avviare una rivoluzione culturale tesa a condurci gradualmente a ridisegnare il sistema monetario secondo un’ottica completamente diversa, volta a trasformare la moneta in un vero e proprio “common”. Questa modifica, di forma e di sostanza, consentirebbe prima di tutto di comprendere, non solo il reale valore che andrebbe attribuito al denaro, ma anche il potenziale ruolo che questo straordinario strumento potrebbe svolgere in un progetto di riforma del nostro sistema socio-economico in un’ottica di maggiore sostenibilità, equità e giustizia sociale.

Al contrario di quanto ci viene ripetuto costantemente, il denaro non rappresenta una riserva di valore universale ma rappresenta semplicemente una riserva di mezzi di pagamento il cui ambito universale di accettazione è sancito per legge. Ne deriva che il valore del denaro non viene espresso nel suo possesso. Al contrario, finché il denaro non viene speso, è e rimane esclusivamente un valore in potenza che diviene in atto solo nel momento in cui viene ceduto in cambio di beni e servizi. Allo stesso modo, il suo valore nel tempo, non dipende da una sua proprietà innata, ma riposa esclusivamente nella fiducia che riponiamo nelle istituzioni che lo emettono, nella loro capacità di rifornirne l’economia in quantità sufficiente alle sue reali necessità e di mantenerne, per quanto possibile, stabile il valore nel tempo.

Ma il messaggio più semplice che prescinde da ogni tecnicismo, è che tutto il denaro del mondo non avrebbe alcun valore se non ci fosse una comunità di individui disposta ad accettarlo in cambio dei beni e servizi che è in grado di produrre. In fondo la moneta contemporanea non è coperta – backed – da nient’altro se non dalle risorse che il pianeta generosamente ci mette a disposizione (che condividiamo con il resto della biosfera, che abbiamo ricevuto in prestito dalle generazioni future e di cui dovremmo smettere di abusare), dalla fiducia tra esseri umani e dalla capacità collettiva dell’uomo di produrre valore attraverso la conoscenza, il lavoro, gli scambi e le relazioni.

Solo questa consapevolezza ci consentirà di avviare un vero cambiamento e a relativizzare l’importanza e il ruolo del denaro nella nostra società e nelle nostre vite. Non più un fine che giustifica mezzi non sempre etici e desiderabili – esaltando ed incentivando alcune delle qualità umane più deprecabili – ma uno strumento di pubblica utilità, una “istituzione”, un bene comune, messo a disposizione dalle nostre istituzioni al servizio della collettività e dei suoi obiettivi, capace di contribuire positivamente alla costruzione di un benessere duraturo e condiviso.

Spesso abbiamo la spiacevole tendenza a scordarci i concetti più semplici: per uno Stato, che abbia fattori produttivi (beni e lavoro) sottoutilizzati, e che sia capace e abbia il coraggio di servire fino in fondo i bisogni e le necessità della collettività che rappresenta, la mancanza di denaro non potrà mai rappresentare un problema, perché in fondo, come affermò JM Keynes, in una celebre intervista del 1942 alla BBC, “il denaro è solo una questione tecnica”.

Alle provocazioni dell’intervistatore della BBC che lo incalzava dicendo: “(…)Le ho chiesto da dove proviene il denaro, signor Keynes. Il denaro non c’è, e lei mi risponde che è solo una questione tecnica! Il Regno Unito la sta ascoltando!(…)”,  Keynes rispose con un aneddoto tanto semplice quanto illuminante:”(…) vi racconterò come risposi a un famoso architetto che aveva dei grandi progetti per la ricostruzione di Londra, ma li mise da parte quando si chiese: ”Dov’è il denaro per fare tutto questo?”. “Il denaro? – feci io – non costruirete mica le case col denaro? Volete dire che non ci sono abbastanza mattoni e calcina e acciaio e cemento?”. “Oh no – rispose – c’è abbondanza di tutto questo”. “Allora intendete dire che non ci sono abbastanza operai?”. “Gli operai ci sono, e anche gli architetti”. Bene, se ci sono mattoni, acciaio, cemento, operai e architetti, perché non trasformare in case tutti questi materiali?”. Insomma possiamo permetterci tutto questo e altro ancora. Una volta realizzate le cose sono lì, e nessuno ce le può portare via. Siamo immensamente più ricchi dei nostri predecessori!”

Ed è proprio questo di cui parlo quando mi riferisco alla moneta come ad un bene comune.  Il denaro, come detto, non è quello che Searle chiamerebbe un fatto bruto, qualcosa che esiste al di là di noi e della nostra capacità di produrre valore ma fa parte della costruzione della realtà sociale ed è frutto della creazione di una coscienza del noi.

Ciò che tutti noi, insieme, siamo in grado di fare, con il nostro lavoro, con le nostre capacità, con le nostre relazioni, non svanisce da un giorno all’altro perché manca il denaro. Questo enorme potenziale che noi e le nostre comunità siamo in grado di produrre è ancora lì dove è sempre stato, sta solo a noi a prenderne coscienza una volta per tutte, solo così nessuna crisi potrà mai più portarcelo via.

Per chiudere. C’è una famosa battuta di Bertrand Russell a cui penso spesso in questi giorni: “La causa principale dei problemi è che nel mondo di oggi, gli stupidi sono maledettamente sicuri di sé, mentre le persone intelligenti sono piene di dubbi”.

Non ho mai creduto alla possibilità dividere il mondo in categorie duali, in belli e brutti, in buoni e cattivi, in stupidi e intelligenti, ma ho sempre pensato che dentro ognuno di noi dimorino più anime, più nature contrapposte e in conflitto più o meno latente tra loro. Da un lato l’utile idiota, spaccone, egoista, sicuro di sé, che non ha tempo per i dubbi e le domande, che non si fida degli altri perché non ha alcuna fiducia in stesso, che misura il mondo sempre e solo con il metro del potere e del denaro, e che agisce sempre nel modo in cui ritiene tutti agirebbero al suo posto, perché il mondo non cambia e ognuno in fondo pensa solo ai propri interessi; dall’altra un timido empatico essere impacciato, animato da onnivora curiosità, che più studia e più scopre di non sapere, inadatto all’azione, sempre così saturo di dubbi da essere prossimo alla paralisi.

Proprio per questa ragione, nella maggior parte dei casi, è la prima delle due nature a prevalere e a prendere il comando, mentre la seconda è come se giacesse sepolta dentro di noi, immobilizzata dai dubbi e dalle paure. Perché è proprio la nostra insicurezza che ci porta ad avere costantemente bisogno di certezze, di sicurezze vere o presunte, di fondamenta su cui costruire, non importa di quanto poco solide, infondate e poco credibili siano, l’importante è uscire dal dubbio e dall’immobilismo a cui spesso la ragione ci conduce. Il mio appello va allora a quella parte immobilizzata dai dubbi e dalle incertezze che è dentro ognuno di noi: diciamo basta ai dogmi e alle fedi, riappropriamoci della nostra incredulità, liberiamo la nostra intelligenza, perché è tempo di agire e ci sarà bisogno dell’intelligenza di tutti, perché il pensiero critico è l’unica arma che abbiamo per proteggerci da noi stessi. Anche a costo di sbagliare, dobbiamo cominciare a muoverci e ad agire perché nella vita più degli sbagli che facciamo pesano gli errori che non ci siamo concessi di commettere per paura di sbagliare.

Parafrasando Keynes, forse sarà solo la miseria a fornire ai più quell’incentivo a cambiare le cose che mancava, costringendoci tuttavia ad affrontare la transizione proprio in circostanze in cui il margine per nuovi esperimenti è assai ridotto. D’altra parte, purtroppo, la prosperità materiale tende ad eliminare l’incentivo al cambiamento proprio quando si potrebbe tentare il nuovo senza correre troppi rischi. Quanto impareremo stavolta sulla nostra pelle dovrà davvero servirci di lezione per il futuro, anche perché, se da una parte è vero, come affermava Cipolla, che siamo condannati all’irripetibilità della Storia, dall’altra è altrettanto vero che ciò che possiamo cambiare è il nostro atteggiamento verso la storia, a partire dallo smettere di progettare ed interpretare il futuro attraverso le medesime categorie di quel passato da cui vogliamo e dobbiamo allontanarci.

Ogni debutto è prematuro, ma necessario. Oggi abbiamo elementi chiari su come e dove intervenire, abbiamo i modelli teorici, abbiamo tecnologie capaci di supportarci, abbiamo i piani attuativi per una riforma complessiva del sistema monetario, abbiamo dei modelli macroeconomici solidi, studi documentati e circostanziati, abbiamo un progetto dettagliato per gestire la transizione. Dobbiamo solo trovare il coraggio e volerlo.

Naturalmente sarebbe solo il primo passo di un lungo il cammino verso un fine condiviso più alto e lungimirante della mera accumulazione indefinita di ricchezza e potere nelle mani di pochi.

Lungo il percorso arriverà un momento in cui potremmo trovarci a rivedere alcune delle nostre convinzioni di partenza, e quando quel momento arriverà, dovremmo stare attenti a non sostituire i vecchi dogmi con dei dogmi nuovi, consapevoli che il cammino della conoscenza che da sempre accompagna l’umana impresa è in fondo solo una eterna correzione di bozze.

Quando avremo trovato il coraggio, a dispetto dell’opinione dominante, di gridare a gran voce che il re è nudo, ci stupiremo di quanti, esattamente come noi, più di una volta lo abbiano pensato senza mai trovare il coraggio di dirlo.

Sarà come svegliarsi da un lungo sonno privo di sogni e pieno di angoscia, e quando questo accadrà, come ci ricorda Keynes in uno straordinario passaggio di “Esortazioni e Profezie”, “dovremo finalmente saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione «denaro» il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali”.