Abbiamo davvero bisogno di cavalli più veloci?

Tra le tante, celebri, battute attribuite a Henry Ford ce n’è una in particolare che viene spesso ricordata nel mondo dell’innovazione: “Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: un cavallo più veloce.”

Questa battuta era anche una delle preferite di Steve Jobs. Lo stesso Jobs, infatti, nel periodo in cui lavorava sui primi Macintosh, ne offrì una reinterpretazione forse più tecnica ma di certo non meno incisiva: “Come potrei mai chiedere alle persone come dovrebbe essere un computer con un’interfaccia grafica se non hanno idea di che cosa sia un computer con un’interfaccia grafica? Nessuno ne ha mai visto uno prima.”

In ambedue i casi l’intento non vuole essere quello di affermare che la gente è troppo stupida, ignorante, reazionaria o arretrata per immaginare il futuro (anzi, in molti casi i consumatori si sono dimostrati “più avanti” di molti operatori di settore), bensì sottolineare il fatto che l’utenza difficilmente potrà fornire delle indicazioni utili su qualcosa che non conosce, semplicemente perché, questo qualcosa, ancora non è stato inventato.

Nel caso di Ford, se da un’ipotetica indagine di mercato fosse venuto fuori che effettivamente “la gente” avrebbe voluto “cavalli più veloci”, buona parte dell’industria tradizionale del trasporto su ruote di quegli anni, guidata proprio dalle indicazione dei consumatori, si sarebbe probabilmente concentrata sullo sviluppo di tecnologie finalizzate alla produzione di carrozze più resistenti e leggere, con ruote più scorrevoli e un sistema di ammortizzazione più efficiente, tali da ottimizzare la potenza di traino dei cavalli o nel progettare nuove tecniche di allevamento per offrire sul mercato cavalli più veloci, forti e resistenti.

Tutte possibili vie per un’innovazione di tipo incrementale, la cui efficacia, tuttavia, una volta raggiunta la maturità del paradigma in cui ci si muove, diviene via via sempre più marginale, mostrandosi gradualmente sempre meno efficiente e antieconomica, rivelando presto tutti i propri limiti.

Chiunque lavori nel mondo dell’innovazione e abbia un minimo di dimestichezza con le metodologie e gli strumenti di ricerca sugli utenti sa, infatti, che chiedere ai clienti “cosa vogliono” è del tutto inutile allo scopo.

Ciò che va tenuto veramente a mente è che in realtà, sia Ford che Jobs, hanno costruito il loro successo proprio sulla capacità di cogliere i bisogni del mercato rispondendo a questi bisogni con delle soluzioni del tutto (o quasi) inedite, agendo sul paradigma e modificandolo.

Il punto della questione, infatti, è che innovare significa letteralmente “inventare il futuro” capendo prima di tutto come e perché le persone compiono le proprie scelte o hanno determinati comportamenti.

L’innovatore coglie e comprende l’esigenza del presente proiettandola nel futuro, modificando il contesto in cui si muove, cambiando le regole del gioco, non limitandosi a migliorare qualcosa che già esiste ma offrendo qualcosa di completamente nuovo.

Ford probabilmente non chiese mai ai suoi potenziali clienti cosa volessero, ma sicuramente colse una delle grandi esigenze del suo tempo: quella di muoversi più velocemente. E se non era possibile rendere più veloci i cavalli allora era il caso di iniziare a pensare ad un’alternativa. Steve Jobs ha sempre fatto lo stesso: si è sempre concentrato non tanto su come migliorare qualcosa che già esisteva ma su come creare un prodotto in grado di cambiare l’esperienza d’uso, il modo di vivere di chi lo avrebbe utilizzato.

Purtroppo, davanti ad ogni grande svolta tecnologica, si cade nell’errore di volersi limitare a tradurre la tradizione riproducendo vecchi schemi attraverso le nuove tecnologie. Tale approccio ha certamente dei vantaggi, agendo su processi esistenti per renderli più rapidi, accessibili, semplici ed efficienti ma ha il grande difetto di non sfruttare il potenziale di creatività che le nuove tecnologie ci offrono finendo per cadere nelle trappola di voler interpretare nuovi modelli con vecchi schemi incapaci di creare quel cambiamento di cui la società ha davvero bisogno. Pensate ad esempio alla forma libro per come la conosciamo. Ci sono voluti oltre duecento anni dall’introduzione della stampa a caratteri mobili della stampa per arrivarci, lo stesso vale per altre grandi tecnologie come il cinema, l’automobile… 

Ma giunti a questo punto, probabilmente la necessità è un’altra, più profonda e radicale. Abbiamo bisogno di modelli capaci di utilizzare le nuove tecnologie non per tradurre in digitale processi già noti, bensì di fare cose del tutto inedite che fino all’avvento di queste tecnologie non erano neppure pensabili. Abbiamo bisogno di nuove idee che siano native digitali, non di surrogati digitali ancorati alla radice a schemi di pensiero profondamente analogici in termini di impostazione e metodo.

Ciò di cui abbiamo bisogno sono innovazioni davvero radicali, abbiamo assoluto bisogno di nuove categorie interpretative, nuove parole, nuovi concetti su cui costruire nuovi mondi. Da questa nostra capacità dipende in gran parte il nostro futuro e quello di tante altre specie sul pianeta, saremo in grado di cogliere e di superare questa sfida? Saremo in grado di smettere di farci guidare dalla tecnica e di cominciare a guidare la tecnica, smettendo di confondere mezzi e fini?